Non perentorietà del termine per presentare giustificativi e offerta di utile simbolico

F.B.

Il termine per produrre alla stazione appaltante, nell’ambito della procedura di verifica delle offerte anomale, i giustificativi domandati, non è perentorio, in mancanza di una diversa previsione nella lex specialis (o, aggiungiamo, nella richiesta di giustificativi).
Lo afferma, confermando una lettura piuttosto liberale emersa negli ultimi mesi in tema di verifica dell’anomalia, il Consiglio di Stato, con la decisione n. 1018 del 20 febbraio 2009.
Alla pari della normativa previgente, il d.lgs. n. 163/06 regola la fase della giustificazione delle offerte anomale, non prevedendo, tuttavia, alcuna comminatoria per il caso di intempestività dei chiarimenti, così come per l’ipotesi, in rilievo nella vicenda contenziosa qui in esame, di omessa presentazione dei medesimi, che abbia costretto la stazione appaltante a un nuovo interpello.
In passato, peraltro, la giurisprudenza maggioritaria aveva optato, invocando il generale principio di par condicio, per un’interpretazione più restrittiva, considerando il termine concesso dall’amministrazione comunque perentorio. In questo senso, anche da ultimo, cfr. TAR Lazio, Roma, n. 2502 del 20 marzo 2008, per la quale “tale legittimo contraddittorio non può mai essere dilatato ulteriormente a danno di altri concorrenti principi, ai quali la procedura concorsuale deve attenersi, vale a dire la "par condicio" tra i partecipanti, la trasparenza, la speditezza delle operazioni concorsuali. Ne consegue che il problema del termine entro cui presentare gli elementi giustificativi circa l'affidabilità dell'offerta presentata, richiesti dalla stazione appaltante, va risolto nel senso che detto termine ha natura perentoria , avendo come finalità sia quella di garantire il contraddittorio in condizioni di parità tra i concorrenti, sia quella di garantire il pubblico interesse, assicurando la definizione della gara in tempi rapidi e, comunque, certi” (analogamente, Consiglio Stato, sez. VI, n. 2780 del 18 maggio 2001). Diversa la lettura della V Sezione del Consiglio di Stato, sul presupposto – formalistico – che “in assenza di specifica comminatoria in seno alla legge ed alla lex specialis l’amministrazione ha il potere discrezionale di prorogare il termine”, e su quello – sostanziale – per cui “lo stesso principio del contraddittorio che permea la fase della verifica di anomalia impedisce di accedere a soluzioni rigide”. Stessa ratio, in buona sostanza, che aveva portato ad affermare, sempre in tempi recenti, che la fase di giustificazione delle offerte anomale ha natura per così dire dinamica, con possibilità, pertanto, non solo di provvedere tramite “aggiustamenti progressivi” (invece ritenuti inammissibili dalla giurisprudenza precedente), ma anche taluni scostamenti, qualora su profili non essenziali, rispetto all’offerta presentata.
Sono di particolare interesse anche i princìpi rinvenibili, nella sentenza in commento, con riferimento al principio di serietà delle offerte, anch’esso già oggetto di rimeditazione in tempi recenti. L’interpretazione tradizionale, sul punto, è che l’offerta di un servizio a costo simbolico (c.d. nummo uno) sia inammissibile, in quanto incidente sulla serietà dell’offerta e perciò sull’affidabilità del contraente (es. Consiglio Stato, sez. VI, n. 4210 del 21 luglio 2003).
Già con una sentenza di qualche tempo addietro, in relazione ad un appalto per servizi di consulenza, Palazzo Spada era tuttavia addivenuto ad un vero e proprio ripensamento (che aveva suscitato più d’una perplessità), stabilendo che, nello specifico settore, non può escludersi la (lecita) volontà del professionista di privilegiare, rispetto al guadagno immediato, l’ingresso nel mercato e la propria visibilità. Anche la giurisprudenza che richiede un utile specifico, in ogni caso, ne ha escluso la possibilità di una preventiva quantificazione (per tradizione stabilita nella misura del 10% della base d’asta o dell’offerta), ritenendo che “non esiste una quota di utile rigida al di sotto della quale la proposta dell'appaltatore debba considerarsi per definizione incongrua” (Consiglio Stato, sez. V, n. 3819 del 5 luglio 2007).
Con la decisione in commento, il Consiglio di Stato prosegue sulla strada intrapresa, ribadendo che non è configurabile una quota minima di utili, precisando che “assume rilievo invece la circostanza che l’offerta si appalesi seria, cioè non animata dall’intenzione di trarre lucro dal futuro inadempimento delle obbligazioni contrattuali”.
Il quadro che si delinea, pertanto, è quello di una verifica di anomalia sempre più svincolata da requisiti sia di forma, che di sostanza: sempre più snella, ma a rischio di risultare priva dell’efficacia selettiva che le è propria.

Il Consiglio di Stato individua i criteri per il risarcimento del danno derivante dalla mancata aggiudicazione di un appalto pubblico

L.S.
Con la sentenza n. 1180 del 2 marzo 2009, il Consiglio di Stato individua alcune regole per la quantificazione del risarcimento del danno spettante ad un’impresa illegittimamente esclusa da una gara pubblica della quale sarebbe risultata aggiudicataria in caso di corretta applicazione delle regole e dei criteri di gara da parte dell’Amministrazione Appaltante, laddove non sia più possibile (nel caso in esame per il sopravvenuto fallimento dell’Impresa stessa) la reintegrazione in forma specifica.
Ritiene il Consiglio di Stato che in primo luogo debba essere considerato il “lucro cessante” da rapportarsi all’utile che l’impresa avrebbe conseguito, a seguito dell’aggiudicazione illegittimamente negata. Tale utile, che la prevalente giurisprudenza mutua dall’art. 345 della legge 20.3.1865, n. 2248, all. F (riprodotto dall’art. 122 del D.P.R. 21.12.1999, n. 554 e dall’art. 37 septies, comma 1, lettera c, della legge 11.2.1994, n. 109), nella misura del 10% dell’importo dell’appalto, secondo il Consiglio di Stato deve essere tuttavia parametrato al ribasso praticato in sede di offerta. Detta quantificazione deve considerarsi comprensiva anche del “danno emergente”, identificato nel costo affrontato dall’Impresa per la presentazione dell’offerta, precisando il Consiglio di Stato che detto costo costituisce un investimento, ma anche un rischio che l’impresa deve sopportare.
Infine, il Consiglio di Stato riconosce la risarcibilità di un’ulteriore voce di danno e cioè del cd “danno curriculare”, definito come “deminutio di peso imprenditoriale della società per omessa acquisizione dell’appalto che la medesima avrebbe avuto titolo a conseguire”. Tale danno, che consiste certamente in un inferiore radicamento nel mercato dell’impresa sino a poter essere concausa della crisi economica o imprenditoriale della medesima, è di difficile determinazione e viene quantificato dal Consiglio di Stato – secondo una stima già ritenuta equa (Cons. St., sez. VI, 9.6.2008, n. 2751) –  fra l’1% e il 5% dell’importo globale del servizio da aggiudicare.

I mutevoli confini del “formalismo” nella giurisprudenza in materia di appalti pubblici: due recenti decisioni a confronto

M.M.
Nella lezione giurisprudenziale in materia di diritto degli appalti, si fronteggiano da sempre orientamenti più o meno “formalistici”, legati i primi a esigenze di completezza dell’offerta, di par condicio e quindi di sostanziale non integrabilità della stessa posteriormente alla sua proposizione, ed i secondi orientati alla prevalenza del principio del favor partecipationis, onde “ampliare” il confronto concorrenziale.
Sul punto, rivestono particolare interesse le pronunce rese in merito a fattispecie di carenze ed omissioni documentali dell’offerta prodotta in gara.
In tal senso, appaiono perfettamente esemplificative due recenti pronunce della V sezione del Consiglio di Stato.
La prima, n. 5931 del 2 dicembre 2008, concerneva un caso in cui ben tre concorrenti alla procedura di gara avevano omesso la presentazione, nella propria offerta, di un “foglio” contenente un prezzo unitario; ciò che, ad avviso del Giudice di prime cure, avrebbe dovuto comportare l’esclusione dalla gara delle tre Imprese, con spettanza alla ricorrente della commessa in gara.
In accoglimento dell’appello proposto dall’Amministrazione, Palazzo Spada afferma che l’omissione sia da ritenersi mero errore materiale, e che il prezzo mancante fosse derivabile aliunde (vale a dire, dall’importo totale offerto in gara, sottratta la somma degli altri prezzi unitari); in ultima analisi, ne deriva “la conclusione dell’incongruità, alla luce del principio del favor partecipationis e dei canoni ermeneutica civilistici in sede di decifrazione della volontà dei contraenti, della sanzione dell’esclusione rispetto ad una mera irregolarità formale non influente sui termini sostanziali e sulla completezza effettiva dell’offerta”.
Di segno decisamente differente è la seconda decisione sottoposta, n. 6501 del 22 dicembre 2008, resa – si richiama – nuovamente dalla V Sezione.
Nel caso qui affrontato, un’Impresa concorrente ad una gara d’appalto aveva depositato in gara un certificato ISO 9001 scaduto, pur essendo in possesso del medesimo certificato valido alla data della presentazione dell’offerta, per mero errore materiale di preparazione dell’offerta.
Il Consiglio di Stato, nel caso, ha ritenuto ininfluente sia “il fatto che il requisito fosse concretamente posseduto dall’Impresa sin dalla data di presentazione della domanda di partecipazione alla gara”, sia che “la produzione del vecchio certificato fosse dovuta ad un errore materiale”, e ciò perché “nelle procedure di appalti pubblici non può ammettersi la sostituzione di un documento scaduto con un altro in corso di validità, perché ciò determinerebbe non già una mera regolarizzazione, ma una integrazione documentale, con alterazione della par condicio fra i concorrenti”.
Deve peraltro richiamarsi che, nei due casi affrontati, le conclusioni cui sono pervenuti i Giudici d’appello sono espressamente affermate come conformi alle previsioni dei rispettivi capitolati e lex specialis di gara; documentazione, quest’ultima, non a caso richiamata nella parte motiva di entrambe le decisioni, a rafforzarne le rispettive conclusioni: ciò, a riprova dei principi (oltremodo consolidati in giurisprudenza) di primazia e tassatività delle previsioni contenute nella lex specialis di ogni procedura, con particolare riferimento alle clausole a pena d’esclusione ivi contenute.

Se la Commissione specifica i criteri dopo l’apertura delle buste, la gara a rifatta. Consiglio di Stato, V, n. 6320, del 18.12.08

F.B.
Il Consiglio di Stato rimarca il principio, oltremodo pacifico, per cui la Commissione di gara può specificare i criteri o introdurre elementi di specificazione ed integrazione circa essi, solo prima dell’apertura delle buste: solo in tal modo sono rispettati i principi di segretezza, par condicio, buon andamento, e trasparenza, in quanto la previa (ancorché solo astratta) conoscenza delle offerte è idonea, potenzialmente, a snaturare la gara, e prestarsi a favoritismi.
La questione della precisazione dei criteri, che in via generale implica anche la possibilità stessa per la Commissione di provvedere a tale attività (la giurisprudenza comunitaria, infatti, l’aveva messa in discussione individuando il bando quale unica sede idonea), appare, comunque, oggi risolta dal nuovo Codice dei contratti.
Quest’ultimo stabilisce, all’art. 83, che “il bando prevede, ove necessario, i subcriteri e i subpesi o i sub punteggi… La commissione giudicatrice, prima dell'apertura delle buste contenenti le offerte, fissa in via generale i criteri motivazionali cui si atterrà per attribuire a ciascun criterio e subcriterio di valutazione il punteggio tra il minimo e il massimo prestabiliti dal bando”.
In buona sostanza, la fissazione dei criteri di valutazione spetta a bando, mentre alla Commissione residua solo di stabilire i criteri motivazionali.
Pur sempre, però, prima dell’apertura delle buste. Possibilmente, però, in ossequio ai principi che anche il Consiglio di Stato richiama, prima della apertura dei plichi (e non solo prima dell’apertura delle offerte tecniche), in quanto già la conoscenza dei soggetti concorrenti potrebbe, sempre in astratto, condurre a effetti discorsivi.

L’offerta deve essere unica, altrimenti la concorrente va esclusa. Consiglio di Stato, V, n. 6205 del 15.12.08

F.B.
Il Consiglio di Stato (decisione n. 6205, del 15/12/08) riconferma il principio consolidato (si veda, per tutte, Consiglio Stato , sez. V, 07 ottobre 2002, n. 5278) per cui le concorrenti, salvo diversa previsione della lex specialis, non possono presentare più di un offerta, pena altrimenti l’esclusione anche in mancanza di apposita clausola.
L’evenienza ha rilievo, in particolare, per le commesse di forniture, dove l’Impresa produttrice di più prodotti potrebbe avere interesse a presentare più offerte: ciò, come correttamente stigmatizzato dal Consiglio di Stato, tuttavia implica un incremento delle chance di aggiudicazione rispetto alle altre partecipanti, a dispetto della par condicio, e che quindi può essere ammesso solo ove l’Ente abbia, nel bando, disposto in tal senso.
Offerte plurime, altrimenti, non sono concepibili.

Sussiste collegamento sostanziale fra Imprese, anche quando una Società terza detenga l’intero pacchetto azionario delle stesse

M.M.
Il Consiglio di Stato ritorna, con decisione n. 6037 del 5 dicembre 2008 resa dalla VI Sezione, sulla nozione di collegamento sostanziale, ed in particolare sulla distinzione civilistica fra collegamento e controllo, alla luce della “nuova” disposizione in materia dettata dall’art. 34, co. 2, del d.lgs. 163/2006.
La fattispecie sottoposta, nel caso, era relativa al possesso, da parte di una Società terza, della totalità delle partecipazioni di due Imprese, partecipanti alla medesima gara d’appalto.
Nel caso, riveste particolare interesse la motivazione inerente la struttura del predetto art. 34, co. 2: tale disposizione, ad avviso dei Giudici d’appello, individua un’ipotesi di esclusione automatica, corrispondente alle fattispecie di controllo puntualmente tipizzate dall’art. 2359 c.c., ed una diversa ipotesi (giustappunto, riconducibile alla nozione di collegamento sostanziale), per la quale “l’imputabilità dell’offerta ad un unico centro decisionale deve emergere sulla base di univoci elementi”.
Nel caso, il Consiglio di Stato riconduce quindi, preliminarmente, la fattispecie in esame ad un’ipotesi di collegamento sostanziale, e non di controllo ex art. 2359 c.c.: “l’appartenenza al 100% di due concorrenti ad una unica Società madre non integra l’ipotesi di cui alla prima parte della norma in esame, in quanto le due Imprese non si trovano fra loro in una situazione di controllo ex art. 2359”.
È esclusa, quindi, la possibilità di un’automatica esclusione dalla gara delle Imprese: “alcun automatismo può, quindi, derivare dal mero riscontro dell’appartenenza delle due Imprese ad un’unica società”.
La circostanza del possesso da parte di una Società terza dell’intero pacchetto azionario di due diverse Società partecipanti alla medesima gara, pertanto, viene semplicemente ricondotta nel novero degli “indici” del collegamento sostanziale, di cui – al fine di comminare la sanzione dell’esclusione – deve essere quindi verificata la “univocità”.
In fattispecie di collegamento sostanziale, pertanto, l’interprete è chiamato ad operare “una valutazione di ogni circostanza, senza poter far discendere in modo automatico l’esclusione da un unico elemento, anche se di particolare rilevanza”; nel caso, infatti, Palazzo Spada conferma la legittimità dell’esclusione delle Imprese sulla scorta di ulteriori indici, quali ad esempio la commistione di “organi di amministrazione e di direzione delle … Società”.
La soluzione adottata, tuttavia, non sembra allo stato del tutto consolidata, alla luce di diversi orientamenti recentemente emersi.
Tale pronuncia si colloca infatti in sostanziale continuità con l’analogo precedente della medesima sezione del Consiglio di Stato, rappresentato dalla decisione n. 2950 del 4 giugno 2007; la sez. V, con pronuncia n. 4285 del 8 settembre 2008, pare invece porsi decisamente in contrasto: nel caso affrontato, infatti, una Società terza possedeva partecipazioni non totalitarie delle due Imprese concorrenti; ciononostante, è stata ritenuta sussistente non già una fattispecie di collegamento sostanziale, bensì di collegamento “presuntivo” ai sensi dell’art. 2359, co. 3, c.c., con l’effetto che “la Commissione di gara non doveva fornire ulteriori indizi da cui desumere la presenza di un unico centro decisionale, essendo nella specie l’influenza notevole desumibile ex lege, diversamente da quanto avviene per l’ipotesi del collegamento sostanziale fra Imprese”; dovendosi insomma procedere, nel caso, ad una esclusione automatica delle Imprese, senza alcuna ulteriore istruttoria su altri indizi.
L’intervento di una pronuncia dell’Adunanza Plenaria potrebbe dunque, a breve, rendersi opportuno al fine di chiarire appieno la portata operativa della disposizione di nuovo conio di cui all’art. 34, co. 2 d.lgs. 163/2006.

La gara va annullata se la Commissione apre i plichi in seduta riservata. Consiglio di Stato, VI, n. 5944 del 3.12.08

F.B.
Anche se la legge non dispone espressamente sul punto, l’apertura dei plichi deve avvenire in seduta pubblica, altrimenti la gara è illegittima, per violazione dei canoni di buon andamento e trasparenza dell’azione amministrativa.
È quanto afferma il Consiglio di Stato, anche richiamandosi ad un recente precedente (n. 1856/08, Sez. VI; ma il principio è costantemente affermato), nella decisione in esame, ove il Seggio di gara aveva provveduto all’apertura dei plichi in seduta riservata, senza la possibilità di accesso per i concorrenti, e senza previa comunicazione.

Non è consentito l’accesso all’offerta tecnica di un’Impresa partecipante ad una gara d’appalto, quando il richiedente non abbia dimostrato la sussistenza di un concreto interesse

M.M.

È decisamente innovativa la decisione n. 6121 del 9.12.2008 della V Sezione del Consiglio di Stato, in materia di accesso agli atti di una gara d’appalto.
Nel caso di specie, veniva sottoposto il diniego di accesso, opposto da un’Amministrazione all’Impresa poi ricorrente, all’offerta tecnica dell’Impresa risultata aggiudicataria; l’Impresa richiedente, esclusa dalla gara d’appalto in parola, aveva impugnato in sede giurisdizionale la propria esclusione e, successivamente, con motivi aggiunti di ricorso, l’aggiudicazione definitiva della commessa.
La decisione in commento ruota intorno alla corretta interpretazione dell’art. 13 del nuovo Codice dei Contratti Pubblici, che “integra” la disciplina in materia di accesso contenuta nella l. 241/1990 con speciale riferimento, giustappunto, all’accesso nell’ambito di procedure pubbliche di selezione; si fa, in particolare, riferimento alle disposizioni di cui al co. 5 e 6 della predetta disposizione.
Fra le esclusioni all’accesso previste dal co. 5, infatti, si rinviene quella sancita dalla lett. a, concernente “le informazioni fornite dagli offerenti nell’ambito delle offerte ovvero a giustificazione delle medesime, che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali”; nel caso di specie, la Società aggiudicataria si era giustappunto opposta alla richiesta di accesso alla sua offerta tecnica, per ragioni di segreto commerciale.
Tuttavia, la grande novità della disposizione predetta è rappresentata dal successivo co. 6, il quale, rielaborando indicazioni già presenti in via generale nella l. 241/90, nonché nella più recente e avveduta giurisprudenza, sancisce che “in relazione all’ipotesi di cui al co. 5, lett. a) e b), è comunque consentito l’accesso al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell’ambito della quale viene formulata la richiesta di accesso”. Rileva la V Sezione, pertanto, che “l’accesso eccezionalmente consentito è strettamente collegato alla sola esigenza di una difesa in giudizio”, laddove la disciplina generale di cui all’art. 24 l. 241/90 fa riferimento più genericamente alla “tutela della posizione giuridica del richiedente, senza alcuna restrizione alla sola dimensione processuale”. Tale stretto legame, quindi, fra accesso agli atti e giudizio già instaurato o anche solo potenziale, comporta che la detta norma – sempre ad avviso della Sezione – “imponga di effettuare un accurato controllo in ordine alla effettiva utilità della documentazione richiesta, alla stregua di una sorta di prova di resistenza”; di conseguenza, “tale giudizio prognostico, anche quando è effettuato dal giudice secondo il rito speciale divisato dall’art. 25, l. 241 cit., non può prescindere dalle eventuali preclusioni processuali in cui sia incorso il richiedente”.
Tale affermazione conduce a conclusioni particolarmente “drastiche”: in altre parole, il giudice adito per la pronuncia sulla legittimità o meno del diniego all’accesso opposto dall’Amministrazione, nell’ambito di una gara d’appalto (nell’ambito di applicazione, cioè, del Codice dei Contratti), dovrà consentire l’accesso ogniqualvolta ciò risulti funzionale all’instaurazione di una lite (o ad una lite già pendente), purchè però detta lite possa concretamente essere proposta; previa, insomma, verifica, da parte del “giudice dell’accesso”, di eventuali preclusioni processuali in cui sia incorso il richiedente: “si pensi al concorrente che intenda accedere all’offerta dell’aggiudicatario dopo che siano scaduti i termini decadenziali per impugnare l’aggiudicazione definitiva”.
Tale soluzione appare pertanto foriera di condurre ad una vera e propria sostituzione del giudice dell’accesso a quello del merito, a giudizio già instaurato, e dunque ad una “prognosi” sostanzialmente anticipata su questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito, la cui soluzione spetterebbe naturalmente al giudice adito per il merito; il tutto, limitatamente alla sola materia degli appalti pubblici.

Se il bando richiede la spedizione dell’offerta tramite servizio postale, va esclusa l’impresa che ricorra a un corriere diverso. Consiglio di Stato, V, n. 6491 del 22.12.08

F.B.
Che le clausole a pena di esclusione debbano essere applicate, senza che residui margine discrezionale in proposito, è principio consolidato, e che discende dalla regola generale di par condicio.
Tuttavia, quando si tratti di meri formalismi, spesso la giurisprudenza risolve la questione facendo ricorso a criteri sostanziali, quali quello per cui è ammissibile l’adempimento che sia, di fatto, equipollente.
La decisione in questione sposa invece la linea dura, sancendo la legittimità dell’esclusione di un’impresa che, anziché spedire l’offerta tramite le Poste, come previsto sotto comminatoria di esclusione, si sia avvalso di altro corriere.
La pronuncia in parola non si sofferma sugli aspetti sostanziali, limitando la motivazione alla presa d’atto della non rispondenza dell’invio dell’offerta a quanto prescritto dalla clausola, sulla quale comunque non sono sollevati dubbi di legittimità.
Va peraltro evidenziato che, in precedenti sentenze su materia similare, la giurisprudenza ha concluso, entrando nel merito, per la ragionevolezza della clausola, stante che solo il servizio postale garantisce “pubblica certezza circa gli estremi della spedizione” (T.A.R. Puglia Lecce, sez. II, 06 marzo 2006, n. 1365; T.A.R. Calabria Reggio Calabria, 27 luglio 2005, n. 1293).
Vacilla, in conclusione, il precedente orientamento del Consiglio di Stato (sez. IV, 20 settembre 2000, n. 4934), il quale aveva, diversamente, ritenuto l’illegittimità di simili clausole.