Mario P. Chiti - Il Partenariato Pubblico Privato e la nuova direttiva concessioni

1. Il Partenariato Pubblico Privato (PPP) è una nozione descrittiva di un fenomeno complesso ed articolato che si riferisce in modo collettivo ad un fascio di istituti giuridici caratterizzati da alcuni comuni elementi. Dunque, il PPP non è un distinto ed unitario istituto giuridico1.

Così è anche positivamente previsto nel Codice dei contratti pubblici, che all’art. 3, c. 15 ter (introdotto con il correttivo del 2008), definisce il genere dei “contratti di partenariato pubblico privato”2 e poi ne indica, a titolo esemplificativo3, alcuni tipi. Nel diritto dell’Unione europea non esiste un riferimento generale, né una definizione del PPP, a dispetto delle numerose proposte in tal senso; ma neanche se ne parla in modo espresso nella recente direttiva concessioni.

Pur con queste premesse, la tematica del PPP ha caratteri largamente omogenei. In particolare, si è individuato un filo rosso tra gli istituti giuridici rapportabili al PPP, incentrato sul ruolo del privato quale promotore del progetto, interlocutore e partner di durata della pubblica amministrazione. Ciò è avvenuto inizialmente negli Stati Uniti, nel Regno Unito ed in altri sistemi di simile civiltà giuridica4; ma ben presto anche in altri ordinamenti, avendo il PPP attirato generale attenzione.

Convergenti, ancorché di per sé diverse, motivazioni hanno favorito una rapidissima fortuna del PPP negli ultimi due decenni. Tre motivazioni, in particolare, sono risultate importanti: il ruolo paritario del privato nei confronti della pubblica amministrazione; l’affermazione della sussidiarietà orizzontale, di cui il PPP è considerato una della varie espressioni; la centralità dell’economia sociale di mercato nel contesto della “costituzione economica” dell’Unione europea.

Al fondo delle diverse motivazioni si può cogliere il comune elemento dell’apporto del privato alla realizzazione delle politiche pubbliche in termini di progettualità, di finanziamento e di gestione o cogestione delle iniziative. Fenomeno non certo in precedenza sconosciuto, come dimostrato ad esempio dalla legge sul procedimento amministrativo (n. 241/1990, specie art. 11); ma certo originale nei termini pervasivi in cui adesso si è manifestato nella gran parte dei sistemi giuridici.

Come spesso accade per nozioni nuove ed accattivanti, il PPP ha destato un vero entusiasmo ed è stato considerato quale panacea per una quantità di questioni che nell’ultima parte dello scorso secolo segnavano negativamente l’azione della pubblica amministrazione, quali la carenza di finanziamenti pubblici per nuove iniziative, i limiti imposti dalle norme europee di finanza pubblica, la modesta progettualità, le difficoltà di impostare un efficace rapporto per la gestione dei progetti di durata5. L’esperienza sta dimostrando che nessuno degli istituti rapportabili alla nozione di PPP può considerarsi la primaria soluzione per i problemi dell’azione pubblica; ma comunque bene hanno fatto le istituzioni nazionali ed europee a valorizzare il ruolo di questi nuovi istituti e, quando si trattava di istituti risalenti (come le concessioni), a modernizzarne la disciplina.

2. Come detto, lo sviluppo della tematica del PPP è un fenomeno manifestatosi contestualmente in alcuni tra i più avanzati ordinamenti; ma non avrebbe assunto l’attuale importanza senza il contributo decisivo dell’Unione europea, a partire dalle proposte organiche del 2004.

I principali documenti dell’Unione europea sul tema del PPP sono: il Libro verde del 2004 relativo ai PPP ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni (COM 2004, 327); la Comunicazione della Commissione europea del 15.11.2005 sui PPP e sul diritto degli appalti pubblici e delle concessioni (COM 2005, 569); la Risoluzione del Parlamento europeo del 16.10.2006 sui partenariati pubblico-privati e il diritto comunitario in tema di appalti pubblici e concessioni; la Comunicazione interpretativa della Commissione sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati (PPPI) del 5.2.2008 (COM 2007 6661); il Libro verde del 2011 relativo alla modernizzazione della politica dell’UE in materia di appalti pubblici per una maggiore efficienza del mercato europeo degli appalti (COM 2011 15). Il tema particolare delle concessioni era stato anticipato rispetto ai documenti ora citati dalla Comunicazione interpretativa della Commissione del 12.4.2000 sulle concessioni nel diritto comunitario.

Dopo tanto trattare di PPP, in documenti dell’Unione, non se ne parla invece nella recente direttiva 2004/23 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.2.2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione (d’ora in poi, direttiva concessioni), che pure è la disciplina europea che per la prima volta regola in modo sistematico uno degli istituti capisaldi del Partenariato.

La ragione è che nel breve volgere di un decennio (2004-2014) il dibattito critico sul PPP è stato così intenso da aver, a mio avviso, indotto l’Unione europea ad una virata delle proprie politiche. Tanto da porre il problema della perdurante validità di una nozione unitaria di PPP, visto che l’Unione europea sta sviluppando una politica del diritto incentrata sulla definizione di alcuni dei maggiori istituti del Partenariato; abbandonando la prospettiva di una disciplina generale del tema.

Le riforme non riguardano, intuitivamente, il solo versante dell’Unione europea, stante la perdurante competenza degli Stati membri su una quantità di istituti giuridici del Partenariato, nonché la tendenza alla convergenza ed alla reciproca ibridazione tra gli ordinamenti nazionali. Per l’Italia esiste l’ulteriore questione dell’anticipazione normativa di una prima disciplina del PPP rispetto agli attesi sviluppi del diritto europeo, sulla base di una sicura propria competenza. Tale normativa è ora a rischio di asimmetria o, addirittura, di contrasto con il più recente diritto dell’Unione, come la direttiva concessioni.

Per verificare lo stato di questa evoluzione – che è, insieme, normativa, giurisprudenziale e scientifica – occorre esaminare come il tema del PPP sia stato trattato nei documenti dell’Unione europea, sopra citati, a ciò specificamente dedicati; gli esiti dei relativi dibattiti; nonché le ragioni della mancata considerazione del PPP nelle direttive del 2014 sui contratti pubblici.

3. Il Libro Verde del 2004, dopo una definizione di larga massima del PPP, considera che il Partenariato sia caratterizzato da quattro elementi e che la complessiva tematica si articoli in due categorie di istituti.

La definizione generale di Partenariato si riferisce a forme di cooperazione a lungo termine tra il settore pubblico e quello privato per l’espletamento di compiti pubblici, nel cui contesto le risorse necessarie, apportate in via principale dal privato, sono in gestione congiunta ed i rischi collegati suddivisi in modo proporzionato, sulla base delle competenze di gestione del rischio dei partner del progetto.

I quattro elementi caratterizzanti sono il rapporto collaborativo di lunga durata; il finanziamento almeno in parte privato, con successivo recupero dell’investimento; il ruolo non operativo della pubblica amministrazione, ma di controllo e coordinamento; il trasferimento del rischio sul privato, in modi complessi.

Le due principali categorie di partenariato sono poi definite “PPP istituzionalizzato” e “PPP contrattualizzato”. La prima è caratterizzata dalla decisione condivisa di istituire un nuovo soggetto giuridico cui i due o più partner pubblici e privati parteciperanno; la seconda si riferisce invece alla presenza di un rapporto contrattuale, non organizzativo.

Come è proprio delle importanti proposte presentate dalla Commissione europea nella forma di “Libri verdi” (che di norma rappresentano il secondo stato dell’approfondimento istruttorio, che segue un primo dibattito pubblico), le posizioni della Commissione sollevarono grande interesse e un’accesa discussione. Tanto la definizione del PPP quanto le quattro caratteristiche (presentate in modo così ampio da risultare effettivamente costanti) sono risultate accettabili, almeno in prima approssimazione. Invece, diverse sono state le valutazioni sulla categoria del “partenariato istituzionalizzato” e sulla ricomprensione degli appalti nel PPP contrattuale.

Per quanto riguarda il partenariato istituzionalizzato, il Libro Verde indicava – come accennato – che tale è il caso della decisione di un soggetto pubblico e di un soggetto privato (gli uni e gli altri anche plurali, ovviamente) per costituire insieme un nuovo soggetto incaricato di perseguire un obbiettivo condiviso. Ora, per le società miste va osservato che indubbiamente la parte pubblica e quella privata decidono di istituire un nuovo soggetto giuridico con l’intento di collaborare insieme per il raggiungimento di scopi comuni. In tale prospettiva, nulla è più vicino all’idea generica di Partenariato di un soggetto “comune” alle due parti che lo istituiscono e vi partecipano; inoltre, il privato contribuisce con il proprio apporto finanziario, il lavoro e le prestazioni necessarie. Tuttavia, in questo modulo di PPP a carattere organizzativo manca un elemento essenziale del Partenariato, quale il rischio diretto per la parte privata; non perché la partecipazione societaria sia priva di rischi, ovviamente, ma in quanto il rischio di impresa è propriamente della società e ripartito tra i soci in proporzione al peso delle relative partecipazioni. In ogni caso è del tutto diverso in queste situazioni dal rischio operativo e di disponibilità, come definito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e dai giudici nazionali, e come adesso disciplinato dalla direttiva concessioni. Si consideri inoltre che le società miste hanno un regime giuridico con caratteri non necessariamente identici a quelli delle società di diritto comune (talora con rilevanti discrepanze, anzi); ciò che determina una posizione dei privati differenziata rispetto al criterio generale del rischio di impresa. La circostanza che il privato sia stato scelto all’esito di una procedura ad evidenza pubblica (oggi rimangono solo limitate eccezioni a questa regola) non riequilibra la situazione ora esposta; e comunque è inconferente con l’idea di Partenariato.

Se non è semplice riportare le società miste con qualche precisione alla nozione di PPP, ancora più difficile è per varie altre figure giuridiche soggettive pubblico-private; vista la varietà oggi assunta da queste figure. Anche le “fondazioni pubbliche” – che pur rappresentano in modo descrittivo, di prima approssimazione, una forma di PPP – sfuggono infatti ad una puntuale ricomprensione nella nozione di Partenariato. Infatti, per definizione una fondazione (quale che sia la caratterizzazione, tradizionale o “pubblicistica”) è un soggetto giuridico che vive distintamente dai soggetti che l’hanno promossa e che non contempla neanche il concetto economico di rischio per il privato che vi partecipa6.

Nell’insieme, il “PPP istituzionalizzato” non pare rappresentare una categoria omogenea per la diversità delle figure soggettive che possono considerarsene parte, ed anche per il regime giuridico altrettanto differenziato di tali figure. Ma soprattutto non vi si rinvengono elementi essenziali della nozione generale di Partenariato, come definiti dallo stesso Libro Verde, ad iniziare, come detto, dalla “traslazione del rischio”. Per superare queste obbiezioni a ben poco è valsa la Comunicazione interpretativa della Commissione sui PPP istituzionalizzati del 5.2.2008.

4. Assai discussa è stata anche l’assimilazione tra i contratti di appalto e le concessioni nell’ambito del “PPP contrattuale” (nella terminologia del Libro Verde)7.

I contratti di appalto – istituti di antichissima tradizione giuridica – paiono già a prima considerazione estranei alla nozione di PPP. Infatti, a base di questi contratti non esiste alcuna comune volontà collaborativa di realizzare una comune iniziativa. Il contratto cristallizza gli opposti interessi delle due parti, che rimangono sostanzialmente diversi anche nel corso dell’esecuzione e fino alla definitiva estinzione del rapporto. Il privato non finanzia l’oggetto del contratto, se non in circostanze del tutto particolari ed eventualmente sempre per una parte. Il rischio per il privato, come in tutti i contratti del genere, è solo per il c.d. “rischio operativo”; mancano in genere altri rischi, come il rischio di disponibilità. La programmazione, l’attivazione delle relative procedure e la loro gestione è esclusiva competenza delle pubbliche amministrazioni stazioni appaltanti.

In breve, non risulta per niente convincente l’assimilazione che il Libro Verde ha voluto tra appalti e concessioni nel quadro della categoria del PPP contrattuale. Neanche poteva richiamarsi la circostanza che la direttiva 2004/18 per gli appalti pubblici avesse delle disposizioni applicabili anche alle concessioni. Tali disposizioni riguardano infatti alcuni principi generali da tenere presenti nelle procedure per l’affidamento delle concessioni, senza introdurre una disciplina delle stesse. Anzi, malgrado una forte pressione per una normativa dell’Unione europea sulla materia – quale essenziale componente della disciplina dei contratti pubblici – solo nel 2014 è stata approvata l’attesa direttiva (la già ricordata direttiva 2004/23); che tuttavia, come si dirà, è incentrata proprio sulla distinzione di fondo tra concessioni ed appalti.

5. Alla carenza di un convincente inquadramento generale della nozione di PPP nel diritto dell’Unione si accompagnava un’altrettanto discutibile considerazione dei principali istituti di Partenariato nel Sistema europeo contabile SEC 1995, come interpretato da Eurostat con la decisione 11.2.2004 sul deficit e sul debito.

La questione è molto tecnica, ma alla base vi è il problema definitorio dell’ambito delle operazioni finanziarie che possono o meno rientrare nel Patto di Stabilità (criterio del c.d. off on balance). Problema che rappresenta uno dei maggiori elementi di attrazione per il PPP, ove si accetti il criterio che anche i PPP “freddi” siano da considerare al di fuori dei vincoli del Patto, a meno che non si tratti di veri e propri appalti.

La decisione Eurostat sopra citata del 2004 prevedeva, in riferimento specifico ai contratti di infrastruttura, ma con argomenti facilmente estensibili, che sono contratti di PPP solo quelli in cui una pubblica amministrazione corrisponde al privato tutto o gran parte del costo del servizio; ovvero i casi usualmente definiti come di “opere fredde”. Mentre sono concessioni – distinte dai contratti di PPP – le tipologie contrattuali in cui i servizi sono pagati, in tutto (opere “calde”) o in parte (opere “tiepide”) dagli utenti finali. Per Eurostat, le operazioni in cui il privato si assume il rischio di costruzione ed almeno uno dei due rischi di disponibilità o di domanda possono non essere registrati nei bilanci delle pubbliche amministrazioni. Tale conclusione determinava due problemi: il primo, per la distinzione tra PPP e concessioni, tema sul quale i documenti della Commissione europea fornivano opposte indicazioni; il secondo, per una malintesa applicazione delle regole SEC 95, mai però formalmente contestata ad Eurostat.

Nel 2010 il sistema contabile SEC è stato modificato, con effetto dal settembre 2014, secondo criteri che influenzano anche il tema in esame. Infatti, come chiarito dal Manuale sul governo del deficit e del debito (MGDD), in base alle varie novità possono considerarsi off balance le operazioni di PPP in cui il partner privato assume la maggior parte dei rischi e, allo stesso tempo, ha diritto di godere di larga parte dei benefici derivanti dall’operazione.

Con la direttiva 2014/23 la questione può considerarsi definitivamente superata in quanto la nuova disciplina ricomprende unitariamente le concessioni, anche quelle in cui il principale pagatore è la pubblica amministrazione

La soluzione delle iniziali posizioni di Eurostat è quanto mai opportuna pure per il diritto interno poiché il più volte citato art. 3, c. 15 ter, del Codice dei contratti pubblici stabilisce che alle operazioni di PPP “si applicano i contenuti delle decisioni Eurostat”. Cessa così l’antinomia tra la decisione Eurostat del 2004 – per cui solo i contratti “freddi” sono da considerare PPP – e il nostro Codice che, invece, considera le concessioni quali sue articolazioni, comprese quelle “calde”.

6. Il decennio intercorso tra il Libro Verde del 2004 e le nuove direttive contratti pubblici del 2014 è stato dunque segnato da un intenso dibattito, ma nessuna proposta è stata compiutamente accolta ed approvata. Altri temi sono stati abbandonati o radicalmente riconsiderati8.

Il tema del “Partenariato istituzionalizzato” non è stato sviluppato come tale nella disciplina dell’Unione europea, neanche per parti. Si è avuta invece un’ampia giurisprudenza della Corte di giustizia sul tema delle società miste e del collegato tema dell’organismo di diritto pubblico, ma su aspetti non direttamente connessi al PPP (osservanza delle procedure ad evidenza pubblica da parte delle società miste, applicabilità dei principi sull’“in house providing” a queste società, criteri di scelta dei soci privati, ecc.). L’amplissima letteratura giuridica ha confermato, come già accennato,un marcato scetticismo sulla riconducibilità al PPP delle società miste e delle altre figure soggettive. In sintesi, questa parte delle iniziali proposte del Libro Verde non avuto sviluppo ed anzi può considerarsi abbandonata. Ma va notato come l’ordinamento italiano sia sul punto asimmetrico ed impreciso, almeno nelle definizioni, contemplando ancora le “società miste” tra gli esempi di PPP già contrattualizzato (cfr. il citato art. 3, c. 15, del Codice dei contratti pubblici).

C’è stato invece un fervido e costruttivo dibattito per un aggiornamento delle “direttive appalti” del 2004 (nn. 17 e 18) e per il completamento della disciplina dei contratti pubblici con l’attesa direttiva sulle concessioni.

Le direttive del 2014 (nn. 23-24-25), ed in particolare la “direttiva concessioni” (la 2014/23)9, sono, allo stato, la conclusione di questo percorso; anche se il carattere particolare del processo di integrazione europea indica che nulla è mai punto definitivo di arrivo, ma tappa di un percorso che continua incessantemente. Come dimostra anche il documento del Parlamento europeo nel settembre 2014, con l’ausilio di centri ricerca, “The Cost of Non-Europe in the Single Market10, ove nella parte IV dedicata a Public Procurements and Concessions, si ipotizzano ulteriori perfezionamenti per l’attuazione della normativa europea sui contratti pubblici e sul PPP.

Che cosa ci indicano dunque per la problematica del PPP le direttive n. 23 (concessioni) e n. 24 (appalti pubblici nei settori ordinari; quelli nei settori esclusi – disciplinati dalla direttiva n. 25 – non interessano qua particolarmente)11?

Tra le molte novità, tre sono particolarmente rilevanti ai presenti fini. Anzitutto, nelle due direttive non si parla mai di PPP; neanche nei pur numerosissimi “considerando” iniziali. Merita dunque accertare la ragione di questo silenzio, che non è causale. In secondo luogo, si stabilisce una precisa linea divisoria – concettuale e di disciplina – tra appalti e concessioni; anche per le fattispecie che paiono più strettamente connesse. In terzo luogo, le concessioni disciplinate dalla direttiva n. 23 non sono gli istituti del genere tradizionale delle concessioni traslative o costitutive, ma (cfr. Considerando n. 11) la particolare specie di contratti mediante i quali le amministrazioni aggiudicatrici “affidano l’esecuzione di lavori o la prestazione e gestione di servizi a uno o più operatori economici. Tali contratti hanno per oggetto l’acquisizione di lavori o servizi attraverso una concessione in cui il corrispettivo consiste nel diritto di gestire i lavori o i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo12”.

La prima indicazione – sul mancato richiamo al PPP – è, in tutta evidenza, quella più importante per capire lo stato del diritto europeo per la problematica in esame. Dopo tanto proporre e discutere di PPP, le istituzioni dell’Unione non potevano certo considerarsi ignare di questa tematica; specie nel momento in cui per la prima volta disciplinavano istituti giuridici che ne fanno parte, a ragione (le concessioni), o ridisciplinavano istituti (gli appalti) che, a torto, il Libro Verde considerava parte del PPP. La circostanza che nelle due nuove direttive sia stato omesso ogni riferimento, generale e speciale, al PPP sta dunque a significare – a mio avviso – che il legislatore europee ha considerato, almeno per il momento, che non sussistono le condizioni per una disciplina unitaria degli istituti giuridici riportabili al PPP; ma neanche che ce ne sia bisogno, una volta che il cuore della tematica del Partenariato (le concessioni) trova una compiuta disciplina.

La linea divisoria accuratamente disposta dalle direttive 23 e 24 tra appalti e concessioni indica poi che il legislatore europeo ha implicitamente accolto le critiche – fondatissime – all’iniziale posizione espressa dalla Commissione nel Libro Verde circa l’unitarietà del plesso del “partenariato contrattuale”. In tal modo ulteriormente sfoltendo l’ambito del PPP prima maniera, dopo che era stato fatto cadere l’intero plesso del “partenariato istituzionalizzato”.

Ancora, la nuova disciplina delimita implicitamente l’ambito del PPP rilevante per il diritto dell’Unione europea, in quanto tratta solo delle concessioni “di rischio”. Il punto ricorre in modo puntuale nell’intera direttiva 23; specialmente nei Considerando da 11 a 20 e negli artt. 1e 3. Si tratta di una delimitazione quanto mai opportuna, anche nella prospettiva nazionale. Infatti, se la direttiva chiarisce che per il diritto dell’Unione è rilevante solo questa specie di concessioni è perché solo esse sono istituti in cui il rischio connota il rapporto di partenariato. Si tratta dunque di concessioni “dinamiche”, ben diverse dalle tradizionali concessioni traslative. Secondo il Considerando n. 15, gli accordi aventi ad oggetto il diritto di un operatore economico di gestire determinati beni o risorse del demanio pubblico – quali porti, aeroporti, spiagge – non si configurano come concessioni ai sensi della direttiva 23, in quanto l’amministrazione non acquisisce lavori o servizi, né vi una definizione dei rischi ai sensi della nuova direttiva.

La direttiva 23 rappresenta così un’importante novità anche per il nostro diritto, confermando con tutto il peso giuridico del diritto dell’Unione che il genus delle concessioni va ormai scisso per species, ciascuna con una propria distinta caratterizzazione. Questo esito era atteso da una parte degli studiosi per dare finalmente un’aggiornata sistemazione ad una delle più risalenti nozioni pubblicistiche; ma comporta anche conseguenze importanti per superare una serie di pseudo questioni che – per ragioni comprensibili connesse alle precedenti incertezze normative, nonché per bieche ragioni politiche contingenti – avevano portato a vedere ovunque fattispecie concessorie soggette al diritto europeo. Specie a seguito della direttiva sui servizi nel mercato interno (c.d. direttiva Bolkestein 2006/123).

7. La direttiva 2014/23 sulle concessioni è dunque il principale risultato sinora raggiunto nell’Unione europea sul tema del PPP; ma con esiti che si distinguono assai dalle iniziali proposte del Libro Verde del 2004. Infatti, il PPP viene incentrato sulla figura delle concessioni dinamiche disciplinate dalla direttiva ora citata; senza però che il legislatore europeo abbia chiarito se in questa figura si esaurisca la rilevanza giuridica del PPP, oppure se ciò rappresenti solo una prima disciplina di un complesso fenomeno ancora da completare.

La questione ha intuibili conseguenze, come detto, anche nel diritto interno, in quanto, accettando la tesi che il PPP di matrice europea si esaurisce nelle concessioni di cui alla direttiva 23, una serie di contratti pubblici che il d. lgs. n. 163/2006, e ss.ii.mm. considera esempi, tipici ed atipici, di PPP rimarrebbero privi di ancoraggio nel diritto dell’Unione. E’ il caso ad esempio dei contratti di sponsorizzazione (art. 26), della locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità (art. 160 bis) e dei contratti di disponibilità (art. 160 ter).

Al riguardo, è però opportuno precisare che la mancanza di una chiara base di diritto europeo non delegittima le disposizioni nazionali che si richiamano al PPP, non essendo tale tematica parte delle competenze esclusive dell’Unione. Ma così si determina una situazione di duplice regime di PPP, nazionale ed europeo, in cui il primo si può svolgere autonomamente, almeno sino al punto in cui si determinino incompatibilità con principi generali di diritto europeo rilevanti in tali fattispecie. Situazione interessante quale esempio di riforme interne sollecitate da iniziative dell’Unione europea, poi non sviluppate compiutamente, che risultano caratterizzate da un segno nazionale “eurocompatibile”.

8. Per confermare questa interpretazione occorre analizzare più in dettaglio alcuni punti centrali della direttiva n. 23, quali la disciplina delle procedure di aggiudicazione delle concessioni; il trasferimento del rischio al privato concessionario; il controllo pubblico sull’esecuzione; il finanziamento delle concessioni, anche tramite i c.d. direct agreements.

La procedura di aggiudicazione è stata disciplinata secondo il principio di libertà procedurale delle amministrazioni concedenti, che dunque potranno modellare di volta in volta la procedura a seconda dell’oggetto e delle caratteristiche della concessione. Il principio è opposto a quello della disciplina degli appalti, dove le relative procedure ad evidenza pubblica sono puntualmente predefinite.

Il Libro Verde del 2004 aveva consigliato che, sino all’adozione di una direttiva dell’Unione sul tema delle concessioni,gli Stati membri adottassero procedure flessibili; diverse da quelle per gli appalti. Con enfasi per la procedura di “dialogo competitivo”, considerata la più appropriata per un effettivo rapporto di partenariato in quanto l’amministrazione può aumentare le sue conoscenze nel corso della procedura, affinando le posizioni di partenza ed attenuando l’asimmetria conoscitiva.

La direttiva 2004/18, coeva al Libro Verde, seguiva una linea assai più vaga e per certi versi imprecisa stabilendo solo alcune regole essenziali per le concessioni di lavori a tutela della trasparenza e della pubblicità (art. 56 e segg.); nulla prevedendo per le concessioni di servizi.

Il nostro Codice dei contratti pubblici è andato oltre le previsioni della direttiva 2004/18, con quattro plessi normativi dedicati nell’ordine alle concessioni di servizi su iniziativa pubblica (art. 30); alle concessioni di lavori su iniziativa pubblica (art. 144); alla finanza di progetto (art. 153). Con un proseguo nel regolamento, all’art. 278, per la finanza di progetto nei servizi.

La fattispecie disciplinata dal vigente Codice in modo più leggero è, come detto, quella delle concessioni di servizi. Ma il giudice amministrativo è stato attento a mettere appropriati argini ai poteri delle amministrazioni concedenti. Esemplare la sentenza del TAR Brescia, I, n. 1202/2014, sugli affidamenti diretti di queste concessioni13.

Sino alla direttiva 2014/23 l’asimmetria tra il diritto europeo – quanto mai ridotto – e il diritto nazionale – non completo, ma certamente più incisivo ed inspirato dalla disciplina degli appalti – non aveva dato origine a nessun contrasto sostanziale; neanche per la disciplina della finanza di progetto uscita indenne da alcuni complessi contenziosi.

Adesso invece si pone in modo ineludibile la questione della “libertà di procedura”, che il legislatore nazionale dovrà risolvere nell’attuazione della direttiva 23 attraverso il riconoscimento in via generale del principio sulla libertà delle procedure ed una profonda rivisitazione dell’attuale disciplina della finanza di progetto. Per il principio di libertà di procedura, il diritto dell’Unione non lascia margini agli Stati membri. In caso di eventuali previsioni nazionali difformi, il contrasto sarà facilmente verificabile con la procedura di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia o tramite una procedura di infrazione attivata dalla Commissione; a meno che i soggetti tenuti ad applicare il diritto dell’Unione non disapplichino direttamente la norma nazionale in questione.

Si osservi il modo dettagliato con cui la direttiva 23 ha previsto il principio. Nel Considerando n. 68 si prevede che deve “essere lasciato alle amministrazioni aggiudicatrici ed agli enti aggiudicatori un’ampia flessibilità nel definire ed organizzare la procedura di selezione del concessionario”. Principalmente per la ragione che le concessioni sono di norma accordi complessi di lunga durata con i quali il concessionario assume responsabilità e rischi tradizionalmente propri dalle amministrazioni e rientranti di norma nell’ambito di competenza di queste ultime.

L’art. 30 esplicita in modo netto (tanto da impressionare le vestali dell’evidenza pubblica) che le amministrazioni “sono libere di organizzare la procedura per la scelta del concessionario, fatto salvo il rispetto della presente direttiva” (come per i principi di cui all’art. 3).

Tanto centrale è questo principio nell’ambito della nuova direttiva che è ribadito anche nell’art. 37, inclusa la precisazione (c. 6) che “l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore può condurre liberamente negoziazioni con i candidati e gli offerenti”.

Nella prospettiva di questo scritto, quale è il significato di fondo del principio così originale sulla libertà di procedura?

Pur senza che sia stato esplicitato nei “considerando”, si può a mio avviso agevolmente rilevare che la libertà di negoziazione con i candidati e gli offerenti risponde con puntualità al principio del partenariato, del dialogo tra pari; anzi è il modo primario di dar effettività a questo principio. Le amministrazioni concedenti saranno dunque libere di configurare di volta in volta le procedure più appropriate, anche negoziate e competitive, trattando con i privati quali interlocutori con piena dignità. Fermo che la procedura che così sarà configurata dovrà garantire i caratteri essenziali delle “nuove” concessioni.

9. Passando alla disciplina del trasferimento del rischio, va detto che il tema non è certo nuovo dato che da sempre è stato considerato necessario carattere delle varie forme di PPP ed in particolare delle concessioni, assieme alla traslazione della gestione per cui deve esservi un diretto legame tra il partner privato e l’utente finale. Tuttavia né gli spezzoni di normativa sinora in vigore, né la pur cospicua giurisprudenza avevano chiarito il suo ambito preciso; salvo ribadire che si tratta del principale elemento distintivo rispetto agli appalti.

Più incisiva è stata la giurisprudenza nazionale che da un lato aveva individuato come il rischio debba essere per il privato concreto e sostanziale (ovvero non meramente formale); dall’altro, era giunta addirittura a ritenere nulli i contratti che non assicurassero un’effettiva distribuzione dei rischi, in quanto in frode alla legge (TAR Sardegna, 10.3.2011, n. 213). Quest’ultima posizione, per quanto isolata nella sua radicale conclusione, è meritevole di richiamo poiché con ottime ragioni intende assicurare l’equilibrio del mercato del PPP senza che il privato possa sfruttare le asimmetrie informative e di competenze che affliggono l’amministrazione14.

La giurisprudenza nazionale è inoltre interessante per aver calcato la distinzione tra appalti e concessioni proprio sulla ripartizione del rischio; ma, così facendo, marginalizzando le concessioni “fredde”, se non addirittura espungendole dal genere concessioni. Emblematica la decisione del Consiglio di Stato, VI, 4.9.2012, n. 682, che considera appalti le apparenti concessioni in cui l’onere del servizio viene sostanzialmente a gravare sull’amministrazione.

Il Codice dei contratti pubblici ha usato (con l’art. 15, c. 15 ter, introdotto con la revisione del 2008) una formula apparentemente adeguata, parlando di necessaria “allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizione comunitarie vigenti”; ma ponendo da parte che sul punto le prescrizioni comunitarie sono state sino alla direttiva 2014/23 assai vaghe. Per il caso della concessione di opere destinate alla utilizzazione diretta della pubblica amministrazione, l’art. 143, c. 9, è più preciso nel prevedere che il concessionario deve avere l’alea economico-finanziaria della gestione dell’opera. Anche l’art. 153, c. 13, per la gestione delle operazioni di finanza di progetto.

Adesso il tema del rischio è compiutamente definito con una disciplina europea che non lascia margini di incertezza all’interprete, ma neanche spazi di autonomia per il legislatore nazionale che l’attuerà. Nella direttiva n. 23 tra le tante previsioni dedicate al tema del rischio le principali sono i Considerando n. 18 e n. 20, specie per la definizione del rischio operativo15, e l’art. 5, c. 1, n. 1, (secondo cui il rischio per il concessionario ha natura economica e comporta che in condizioni operative normali non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione).

Nell’insieme, dalla direttiva 23 emerge una chiara configurazione del rischio relativamente alla costruzione delle opere (quando tale è, in tutto o in parte, l’oggetto della concessione), alla domanda (ovviamente variabile per una serie amplissima di fattori), alla “disponibilità”. Con questa espressione si intende la qualità e la quantità della prestazione del concessionario, specialmente rilevanti nel caso di concessioni “fredde”, con canoni di disponibilità erogati dalla pubblica amministrazione che tengono conto dell’effettività delle prestazioni del concessionario. Si tratta dunque di un rischio collegato agli effettivi risultati del concessionario nelle concessioni di gestione di infrastrutture per la pubblica amministrazione (oggi frequenti in vari settori, come la sanità e l’amministrazione penitenziaria).

Secondo la prima posizione di Eurostat del 2004, almeno due di questi rischi dovevano essere espressamente allocati sul privato. Ma dopo la direttiva 23 occorrerà rivedere questa posizione in quanto tutte le forme di rischio sono altrettanto rilevanti; specie il “rischio di disponibilità”.Come anticipato, la decisione Eurostat del 2004 è superata anche nella divisione che prevedeva tra concessioni “calde” e concessioni “fredde”, considerando fuori dal bilancio delle pubbliche amministrazioni solo le prime; mentre quelle fredde finivano, a tali fini, per essere assimilate agli appalti. Dopo che la riforma SEC del 2010 aveva anticipato larga parte delle novità nella prospettiva della contabilità pubblica, la direttiva 23 unifica i due tipi di concessioni, non rilevando che per quelle fredde si tratti di rapporti bilaterali. Ciò che adesso distingue le concessioni di PPP non è la struttura bilaterale o trilaterale (come anche ritenuto dalla prevalente giurisprudenza nazionale), ma il tipo di contratto e la precisa allocazione del rischio; ben presente anche nella concessioni fredde nella veste di rischio di disponibilità.

10. Una terza rilevante novità della direttiva 23 è la previsione di varie disposizioni sulla fase dell’esecuzione della concessione.

Nella direttiva 2004/18 non vi era quasi nulla a tale proposito, neanche per gli appalti. Lo stesso nel nostro Codice dei contratti pubblici, salva l’importante eccezione data dall’art. 143, c. 8, che il diritto del concessionario a richiedere la revisione del piano economico-finanziario in caso di variazioni apportate dalla stazione appaltante o scaturenti da modifiche normative che comunque incidano sull’equilibrio economico-finanziario della concessione.

E’ evidente che tanto il diritto europeo che quello nazionale erano decisamente influenzati dalla tradizionale visione che considerava rilevanti solo le fasi di programmazione, scelta del contraente e di aggiudicazione, lasciando il resto al diritto comune. Con l’ulteriore conseguenza – questa volta specifica solo per il sistema italiano – di una diversa giurisdizione per le questioni dell’una e dell’altra fase: del giudice amministrativo per le procedure di evidenza pubblica e del giudice ordinario, salve situazioni di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sulla fase dell’esecuzione. Ispirati da ben diverse logiche sono i recenti interventi legislativi sugli obblighi di pubblicità, trasparenza e prevenzione dell’illegalità delle pubbliche amministrazioni (legge n. 190/2012; d.lgs. n. 33/2013); anche se la realizzazione effettiva delle misure ivi previste può comunque offrire utili elementi di conoscenza e valutazione per le amministrazioni concedenti.

La quasi inesistente disciplina della fase di esecuzione dei contratti pubblici di appalto e di concessione è una evidente lacuna già per gli appalti, come dimostrato da un’amplissima giurisprudenza. Per gli appalti di lavori, il settore che nella tradizione è il più accuratamente disciplinato, per tutelare gli interessi pubblici in questa fase non sono risultate adeguate figure come il direttore dei lavori e il responsabile unico del procedimento; o modalità di controllo come il collaudo. Pressoché niente era previsto per i servizi.

La carenza nella disciplina della fase di esecuzione dei contratti è comunque assai più rilevante per le concessioni, che per loro carattere implicano rapporti di durata, talora assai lunga, in cui inevitabilmente si determinano evoluzioni nel rapporto contrattualizzato. Le concessioni implicano inevitabilmente delle sopravvenienze, spesso capaci di incidere significativamente sulla realizzabilità stessa della concessione e/o sul suo equilibrio economico-finanziario.

La direttiva 23 è assai innovativa anche per questa parte. Il Considerando n. 76 indica che la concessione può essere modificata solo per circostanza che “non si potevano prevedere nonostante una ragionevole e diligente preparazione dell’aggiudicazione iniziale da parte dell’amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore”, specificata ulteriormente in relazione “ai mezzi a disposizione dell’amministrazione aggiudicatrice, della natura e delle caratteristiche del progetto specifico, delle buone prassi nel settore in questione e della necessità di garantire un rapporto adeguato tra le risorse investite nel preparare l’aggiudicazione e il suo valore prevedibile”. L’art. 43, poi, prevede una serie di ipotesi in cui l’oggetto della concessione può essere modificato dalle parti senza ricorrere ad una nuova procedura di aggiudicazione. Tali ipotesi consolidano per lo più le risultanze della giurisprudenza comunitaria e nazionale, ma nel contesto di una disposizione che tende a precisare per quanto possibile la nozione di “modifica sostanziale” della concessione (cfr. c. 4).

Al di là del completamento del quadro normativo, la direttiva 23 è importante in quanto indirettamente, ma senza equivoci, pone alle amministrazioni pubbliche l’impegno di attrezzarsi per esercitare effettivamente il ruolo di monitoraggio sul modo in cui il concessionario svolge la propria attività contrattualizzata. Tale impegno va ben oltre quello di irrobustire e qualificare gli strumenti tradizionali di controllo sopra rammentati (direzione lavori, collaudo, ecc.), implicando originali procedure, anche informatiche, per una costante verifica quantitativa e qualitativa della concessione. Per di più modellate di volta in volta sulle caratteristiche della specifica concessione da controllare, quale sviluppo di procedure definitorie e di scelta del concessionario in cui l’amministrazione gode di una situazione di “libertà” (così l’art. 30 e segg. della direttiva 23, come già indicato nei paragrafi che precedono).

Un cenno, almeno fugace, va infine dedicato al tema del finanziamento privato del progetto di PPP. Nel diritto italiano, esemplare la disciplina della finanza di progetto, il finanziamento del privato non ha una specifica considerazione, malgrado che le difficoltà di finanziamento in corso di concessione siano un fattore di grave rischio per l’intera operazione. In altri ordinamenti, invece, come nel Regno Unito, è invalsa la prassi dei “direct agreements” (talora noto anche come “tripartite deeds”), contratti trilaterali sottoscritti dal concessionario, da un istituto di credito e dalla pubblica amministrazione; allegati al contratto di concessione.

In occasione della prossima attuazione nell’ordinamento italiano della direttiva 23 sulle concessioni sarebbe opportuno dare specifico rilievo a questo strumento giuridico al fine di responsabilizzare il concessionario ed il finanziatore e, di converso, garantire maggiormente la pubblica amministrazione. Non osta a tale obbiettivo alcun principio sulle procedure ad evidenza pubblica, dato che il direct agreement serve al concessionario (scelto con gara) per dare piena certezza al finanziamento, senza che la pubblica amministrazione acquisisca niente per sé; neanche indirettamente.

11. Da questo excursus sul PPP nel diritto europeo nel decennio 2004-2014, segnato all’inizio dal Libro Verde e dalla direttiva 2004/18 ed oggi dalle nuove direttive appalti (2014/24) e concessioni (2014/23), si possono trarre tre principali conclusioni.

La prima. Il PPP è rimasto nel diritto europeo una nozione richiamata in modo descrittivo, priva di una precisa valenza giuridica. Non esiste, né è alle viste, una disciplina unitaria della nozione; parti intere delle iniziali proposte, come il “partenariato istituzionalizzato”, sono state lasciate a discipline di settore, come suggerito dalla dottrina e dai più attenti commentatori. L’Unione europea si è invece incentrata con successo nell’ulteriore definizione dei caratteri degli appalti, recependo un decennio di giurisprudenza e dibattiti europei e nazionali, ma senza prevedere nella direttiva 2014/24 alcuna connessione tra disciplina degli appalti e del PPP. Anche per questa parte allontanandosi così dalle proposte del Libro Verde, che univa nel “partenariato contrattuale” tanto le concessioni quanto gli appalti.

Lo sviluppo più rilevante dell’ultimo decennio è senza dubbio la direttiva concessioni 2014/23. Al di là dell’importante scelta di disciplinare una tematica che a lungo era stata lasciata da parte rispetto alla sempre più pervasiva disciplina degli appalti pubblici, rileva nella prospettiva del PPP che il diritto dell’Unione si è concentrato sul particolare tipo di concessioni previsto nella direttiva 23 quale istituto per eccellenza di Partenariato.

In sostanza, dopo tante proposte e discussioni sui molti possibili partenariati, nel diritto dell’Unione solo la concessione è rimasta come sicuro istituto giuridico di Partenariato. Si potrà pensare che si tratta solo di un primo risultato, che non preclude altri sviluppi. Ma, se questo è vero, è altresì indubitabile che allo stato non esiste alcun’altra iniziativa della Commissione europea per istituti giuridici riportabili alla nozione generale di PPP. Anzi, viene da pensare che le molteplici proposte per una disciplina europea del partenariato siano state consapevolmente strumentali per superare le ostilità e le oggettive difficoltà della direttiva sulle concessioni.

La seconda conclusione è che il PPP rimane essenziale nel presente difficile contesto. La difficile situazione della finanza pubblica ed i condizionamenti di bilancio rendono necessarie le iniziative ed il coinvolgimento dei privati nella realizzazione e gestione di molteplici iniziative di pubblico interesse. Pur se nella perdurante crisi economica anche la parte privata non è sempre in grado di presentare proposte di particolare rilevanza, l’apporto privato risulta componente imprescindibile delle politiche pubbliche.

Il ruolo dei privati è particolarmente apprezzabile nella fase della progettazione, che è un obbligo per la pubblica amministrazione, ma non suo monopolio in quanto aperto all’apporto dei privati. Come dimostra l’esperienza di due decenni, le principali realizzazioni ascrivibili al PPP sono dovute a proposte private, positivamente valutate dalle amministrazioni. E’ poi spesso apprezzabile una maggiore efficienza di sistema e capacità manageriale nella gestione del rapporto. E’ stato icasticamente chiarito dal giudice amministrativo che in materia di finanza di progetto (ma con argomenti generalizzabili a tutti i contratti ascrivibili al PPP), “la scelta del promotore presenta caratteri peculiari, in quanto è volta alla ricerca non solo di un contraente, ma di una proposta, che integri l’individuazione e la specificazione dell’interesse pubblico perseguito” (Cons. St., V, n. 67/2014).

I più recenti studi della Commissione europea e del Parlamento europeo, aggiornati alle tre direttive nn. 23-25 del 2014, evidenziano la fondamentale importanza della nuova disciplina delle concessioni per lo sviluppo del mercato interno che finalmente completa il diritto dell’Unione per i contratti pubblici. Particolarmente importante il citato Rapporto del Parlamento europeo “The Cost of Non-Europe in the Single Market” che riprende, attualizzandolo, il noto Rapporto Cecchini del 1988.

Per quanto essenziale per le politiche pubbliche, si conferma che il PPP non è una panacea ai problemi che i tradizionali contratti pubblici hanno nel tempo manifestato. Le esperienze dei paesi con maggiore tradizione di PPP – ad esempio il Regno Unito – mostrano non pochi difetti delle iniziative di finanza di progetto, istituto tipico del PPP, specialmente in settori a forte impatto sociale, come la sanità. Gli strumenti di partenariato vanno dunque scelti selettivamente e monitorati in modo efficace nel loro svolgimento.

La terza conclusione è che il PPP può funzionare efficacemente solo se le condizioni delle pubbliche amministrazioni sono adeguate per queste sofisticate procedure. Come da tempo si rileva, il “partenariato” è per definizione un rapporto tra pari, non diseguale, almeno tendenzialmente; un rapporto tra soggetti della stessa dignità formale e con le medesime capacità. Il privato viene così “elevato” da destinatario dell’azione amministrativa a compartecipe, partner appunto. La pubblica amministrazione dialoga con il privato, definisce consensualmente i caratteri della fattispecie, che poi segue in ogni sua fase, anche in quella dell’esecuzione.

Se la pubblica amministrazione non è attrezzata per questi impegni – per ragioni di organizzazione, o di mezzi, o per inadeguata formazione dei funzionari o per altro – il rapporto non potrà funzionare, in quanto si tratterà di una relazione asimmetrica in cui il privato può godere di vantaggi e opportunità varie; ed in cui, comunque, il pubblico interesse è ad evidente rischio. Non è un caso che il PPP sia emerso in ordinamenti ove la pubblica amministrazione, adeguatamente organizzata, è capace di dialogare con il privato con appropriati argomenti tecnici e giuridici; senza utilizzare la “spada” del diritto di supremazia.

Il PPP, specialmente nella forma delle concessioni, è dunque anche un fattore per la riforma e modernizzazione della pubblica amministrazione. Se questo in Italia non si realizzasse, l’occasione delle “nuove” concessioni (ovvero il tipo ora previsto dalla direttiva 23, con diversità dall’istituto tradizionale), aumenterebbe il distacco con la situazione dei paesi europei più evoluti e la non attrattività del nostro sistema per investimenti stranieri.

L’impegno, pur ineludibile, non sembra purtroppo di soluzione rapida e sicura; anche per la difficoltà di superare la ritrosia – non del tutto ingiustificata, visto l’atteggiamento delle Procure penali e della Corte dei conti – delle amministrazioni ad un impegno diretto nella costruzione delle procedure concessorie e nella valutazione dell’esecuzione dei contratti. Pesa inoltre in modo drammatico il numero enorme, patologico, delle amministrazioni aggiudicatrici. Problema che per gli appalti si cerca di attenuare attraverso le centrali di committenza e le nuove figure dei “soggetti aggregatori” (come definiti dal DPCM in corso di approvazione16), ma che per le concessioni disciplinate dalla direttiva 23 si pone in modo assai diverso in conseguenza del carattere particolare di ciascuna concessione e quindi dell’impossibilità di aggregare le relative amministrazioni. Per razionalizzare il sistema delle amministrazioni aggiudicatrice delle concessioni non si può dunque pensare alle centrali di committenza e simili aggregazioni, bensì all’istituzione di un’agenzia centrale di assistenza tecnica capace di fornire l’esperienza necessaria per le amministrazioni che intendono utilizzare il nuovo strumento concessorio.

Note:

1 La tesi esposta in miei precedenti lavori (I partenariati pubblico-privati e la fine del dualismo tra diritto pubblico e diritto comune, in Il Partenariato Pubblico-Privato, a cura di M.P. Chiti, Napoli, 2009, 1 segg; Luci, ombre e vaghezze nella disciplina del Partenariato Pubblico-Privato, in Il Partenariato Pubblico-Privato, a cura di M.P. Chiti, Bologna, 2005, 7 segg.) ha trovato conforto nell’evoluzione del diritto nazionale e dell’Unione europea.

2 La definizione è: “contratti aventi per oggetto una o più prestazioni quali la progettazione, la costruzione, la gestione o la manutenzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, oppure la fornitura di un servizio, compreso in ogni caso il finanziamento totale o parziale a carico dei privati, anche in forme diverse, di tali prestazioni, con allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizioni e degli indirizzi comunitari vigenti”.

3 I casi citati nell’articolo in esame, c. 15 ter, “a titolo esemplificativo” sono: la concessione di lavori, la concessione di servizi, la locazione finanziaria, il contratto di disponibilità, l’affidamento di lavoro mediante finanza di progetto, le società miste (enfasi aggiunta), l’affidamento a contraente generale ove il corrispettivo per la realizzazione dell’opera sia in tutto o in parte posticipato o collegato alla disponibilità dell’opera per il committente o per utenti terzi.

4 Cfr. E.R. Yescombe, Public-Private Partnership, Amsterdam, 2007.

5 Per una sintesi, A. Di Giovanni, Il contratto di partenariato pubblico-privato tra sussidiarietà e solidarietà, Torino, 2012.

6 Il tema è stato di recente ripreso, anche oltre il settore dei beni culturali, da G. Manfredi, La “Fondazione La Grande Brera”, il partenariato e la panacea di tutti i mali, in Aedon, 2014, 2, 18.11.2014.

7 Per un commento, G. Santi, Il Partenariato contrattuale. Assetto e dinamiche evolutive alla luce delle direttive europee e del d.l. 90 del 2014, in Diritto dei contratti pubblici, a cura di F. Mastragostino, Torino, 2014, 236 segg.

8 Per una visione d’insieme, oltre al già citato (n. 1) volume Il Partenariato Pubblico Privato, cfr. Finanza di progetto. Temi e prospettive, a cura di Cartei G.F.-Ricchi M., Napoli, 2010.

9 Per un accurato commento, G. Fidone, Le concessioni di lavori e di servizi alla vigilia del recepimento della direttiva 2014/23/UE, in corso di pubblicazione in Riv. it. dir. pubbl. com., 2015. Per la fase appena precedente a quella della definitiva approvazione delle direttive 23-25/2014, si veda il volume collettaneo, a cura di M. Cafagno-A. Botto-G. Fidone-G.Bottino, Negoziazioni pubbliche, Scritti su concessioni e partenariati pubblico-privati, Milano, 2013.

10 European Parliamentary Research Unit, settembre 2014.

11 Per primi commenti sui testi in itinere, non sempre in linea con l’impostazione del testo, cfr. A. Travi, Il PPP: i confini incerti di una categoria, in Negoziazioni Pubbliche, cit., 143; M. Ricchi, Il PPP: nuove competenze e nuovi strumenti di regolazione della P.A., ivi, 250.

12 Continua il Considerando 11: “Essi possono, ma non devono necessariamente implicare un trasferimento di proprietà alle amministrazioni aggiudicatrici o agli enti aggiudicatori, ma i vantaggi derivanti dai lavori o servizi in questione spettano sempre alle amministrazioni aggiudicatrici o agli enti aggiudicatori”.

13 Per il TAR, nel caso, “trattandosi di una concessione di servizi non erano applicabili integralmente le disposizioni del codice dei contratti pubblici, ma erano comunque necessarie alcune garanzie, ed in particolare la predisposizione di un bando e di un disciplinare di gara, la preventiva definizione dei criteri di attribuzione del punteggio e lo svolgimento di un contraddittorio con il concorrente interessato prima dell’esclusione dell’offerta.

14 Tali profili sono analizzati da F. Goisis, Rischio economico, trilaterità e traslatività nel concetto europeo di concessione di servizi e di lavori, in Dir. amm., 2011, 729 segg. In generale, R. Caranta, I contratti pubblici, 2012, 170 segg. Per la questione del rischio nel contesto della finanza di progetto, F. Merusi, Certezza e rischio nella finanza di progetto, in Finanza di progetto, a cura di G. Morbidelli, Torino, 2004, 18 segg.

15 Da intendere come derivante da “fattori al di fuori del controllo della parti. Rischi come quelli legati ad una cattiva gestione, a inadempimenti contrattuali da parte dell’operatore economico o a cause di forza maggiore non sono determinanti ai fini della qualificazione come concessione, dal momento che rischi del genere sono insiti in ogni contratto, indipendentemente dal fatto che si tratti di un appalto pubblico o di una concessione. Rischio operativo dovrebbe essere inteso come rischio di esposizione alle fluttuazioni del mercato, che possono derivare da un rischio sul mercato dell’offerta o della domanda, ovvero contestualmente da un rischio sul lato della domanda e sul lato dell’offerta”.

16 Si tratta del DPCM assunto in esecuzione dell’art. 9 del d.l. n. 66/2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 89/2014, che prevede l’istituzione dell’elenco (c.d. Tavolo) dei soggetti aggregatori.