Il “formalismo ben temperato” nelle gare d’appalto. Un’interpretazione di Palazzo Spada

M.M.

La sez. V del Consiglio di Stato, con la decisione in commento, ritorna sul tema del “grado” (ragionevole) di formalismo richiesto alle stazioni appaltanti nell’applicazione delle regole di gara, ed in particolare di quelle imposte dalla lex specialis.
Nel caso in questione, un’Impresa è stata esclusa da una gara pubblica d’appalto di forniture per non aver ivi prodotto, nei termini previsti per la presentazione delle domande di partecipazione, taluna documentazione richiesta dalla lex specialis, ed in particolare “né la carta di circolazione né il certificato di idoneità tecnica alla circolazione di uno dei mezzi indicati per l’espletamento del servizio”: tale documentazione era necessaria, nella logica della lex specialis, a comprovare sia la potenza dei mezzi offerti, sia l’effettiva proprietà degli stessi da parte della ditta concorrente.
L’Impresa appellante sostiene, sul punto, che tali caratteristiche sarebbero state desumibili aliunde, ed in particolare da altra documentazione comunque prodotta in gara.
Tali argomentazioni non sono tuttavia ritenute degne di pregio, in quanto, nel caso di specie, il Collegio non ha ritenuto che la documentazione prodotta dall’appellante fosse equipollente a quella richiesta in gara dalla lex specialis.
In particolare, il Consiglio di Stato non ha ritenuto valide le produzioni da parte della concorrente di dichiarazioni sostitutive dell’atto notorio, nelle quali si affermava il possesso dei requisiti di cui si chiedeva la comprova: nell’affermare ciò, il giudicante sembra seguire un’interpretazione strettamente formalistica, laddove afferma che “il meccanismo competitivo proprio della gara d’appalto è infatti tale per cui la lettera della lex specialis non è passibile di interpretazioni estensive, dato che le stesse si tradurrebbero in una violazione procedimentale in danno di quei concorrenti che si sono allineati alla legge di gara in modo pedissequo, osservandone alla lettera le prescrizioni”.
Tale interpretazione sembra pertanto confermare quell’orientamento giurisprudenziale, particolarmente rigoroso, a mente del quale il principio di formalità costituisce insuperabile garanzia della par condicio fra i concorrenti in gara, e come tale richiede in ogni caso la sua stretta applicazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, n. 597 del 3 febbraio 2009).
Tuttavia, nella decisione in commento, i Giudici di Palazzo Spada richiamano un orientamento maggiormente “aperto”, diremmo “comunitariamente orientato”, a mente del quale “il principio che ravvisa nel rispetto puntuale delle formalità prescritte dalla lex specialis un efficace presidio a garanzia della par condicio fra i partecipanti può essere oggetto di temperamenti, perché del formalismo procedurale che sorregge il sistema delle gare d’appalto va scongiurata un’applicazione meccanica che contraddica, alla luce delle specifiche circostanze del caso concreto, la fondamentale ed immanente esigenza di ragionevolezza dell’attività amministrativa, finendo così per porsi in contrasto con le stesse finalità di tutela cui sono preordinati i generali canoni applicativi delle regole della contrattualistica pubblica”.
Il Consiglio di Stato, in altre parole, afferma la possibilità, quando non la necessità, di apportare taluni “temperamenti”, ispirati a criteri di ragionevolezza, che consentano di scongiurare applicazioni meccaniche tali da mettere a repentaglio la stessa finalità concorrenziale, di derivazione comunitaria, cui è preordinato il procedimento ad evidenza pubblica.
Tale orientamento non è nuovo alla sezione, in quanto, recentemente, già la stessa si era espressa in tal senso con la decisione n. 1362 del 9 marzo 2009: “sia pure nel doveroso rispetto della par condicio competitorum, le clausole dei bandi di gara, delle lettere-invito e dei capitolati devono essere interpretate non in modo formalistico, ma sempre con specifico riguardo alle finalità perseguite da ciascuna prescrizione, ad evitare che il rispetto delle forme si traduca in un affievolimento del principio concorrenziale, la cui effettività è sottesa allo stesso meccanismo della selezione comparativa fra più offerte, cui il legislatore, anche comunitario, guarda con sempre maggior favore”.
Tale orientamento richiamato, tuttavia, rischia ad avviso di chi scrive di rimanere sostanzialmente orfano di applicazioni pratiche: nella sentenza in commento, non a caso, il richiamo a tale opzione ermeneutica non fa comunque venir meno la conseguenza espulsiva dell’Impresa concorrente, in ragione della mancanza di documentazione richiesta a pena di esclusione dalla lex specialis di gara.
In tal senso, peraltro, milita anche il principio di stretta vincolatività per l’Amministrazione appaltante delle clausole della lex specialis, in special modo di quelle poste a pena di esclusione (in tal senso, “le prescrizioni dettate dal bando, dalla lettera d'invito e dal regolamento d'appalto, che regolano il procedimento preordinato all'aggiudicazione di contratti con la pubblica amministrazione, hanno carattere vincolante per la commissione di gara che è tenuta a dar loro attuazione specie quando ad una determinata violazione si correli una espressa comminatoria di esclusione dalla gara stessa”; Consiglio Stato, sez. V, 22 ottobre 2007, n. 5503); non pare che tale principio, allo stato, possa essere in alcun modo superato da generici richiami al “principio concorrenziale”.
Deve, quindi, nuovamente riaffermarsi la “primazia” delle regole di gara, e delle loro previsioni espulsive o meno in presenza di eventuali carenze nelle produzioni documentali richieste; regole che il Giudice amministrativo dovrà analizzare caso per caso, tentando una difficile sintesi fra favor partecipationis e par condicio alla luce della considerazione che la stazione appaltante non può non applicare puntualmente le clausole della lex specialis, essendone strettamente vincolata.

La stazione appaltante può richiedere requisiti di partecipazione superiori ai minimi di legge

C.M.
“L’Amministrazione è legittimata ad introdurre, nella lex specialis della gara di appalto che intende indire, disposizioni atte a limitare la platea dei concorrenti onde consentire la partecipazione alla gara stessa di soggetti particolarmente qualificati, specie per ciò che attiene al possesso di requisiti di capacità tecnica e finanziaria, tutte le volte in cui tale scelta non sia eccessivamente quanto irragionevolmente limitativa della concorrenza”.
Il Consiglio di Stato riafferma un principio di diritto ormai davvero consolidato (cfr. da ultimo TAR Calabria, Catanzaro, n. 1618 del 5 dicembre 2008, TAR Puglia, Lecce, n. 2787 del 6 ottobre 2008, Consiglio di Stato n. 4699 del 30 settembre 2008) sul quale la giurisprudenza amministrativa si è più volte espressa: la lex specialis di gara può prevedere requisiti di partecipazione più ampi rispetto a quelli stabiliti dalla legge, ciò rientrando nella discrezione dell’Amministrazione, non sindacabile se non quando manifestamente irragionevole, in quanto arbitraria o sproporzionata. E con il limite, implicito, della garanzia della libera concorrenza.
Nel caso di specie il bando indicava come condizione di partecipazione alla gara una dichiarazione di possesso di un patrimonio netto di almeno € 2.000.000,00, a fronte di una base d’asta di € 6.250.000,00 per un quinquennio. Il Collegio, nello specifico, ha valutato ragionevole e non sproporzionato il requisito in parola, trattandosi di meno di un terzo del valore dell’appalto, e ciò costituendo idonea rassicurazione circa la solvibilità e la solidità dell’impresa.
Quando invece si tratti di fatturato d’impresa, sia la giurisprudenza che l’Autorità di Vigilanza (cfr. deliberazione n. 20/07), hanno fissato il “limite di ragionevolezza” tendenziale nel triennio fino al doppio della base d’asta (pur dovendosi precisare che, in certi casi, è fatto riferimento alla base d’asta complessiva, ed in altri alla base d’asta per singolo anno).
A ben vedere – e la sentenza qui in commento fa espresso richiamo a tale eventualità -, in ogni caso, l’esercizio della discrezionalità dell’ente sul punto può oggi, entrato in vigore il nuovo Codice dei contratti, risultare se mai ampliato anziché compresso, stante la possibilità, per le imprese, di ricorrere, ai sensi dell’art. 39 d.lgs. n. 163/06, all’avvalimento, in forza del quale, come noto, la concorrente che non possiede i requisiti per partecipare alla gara può, alle condizioni previste, spendere quelli di altri soggetti.
La possibilità di avvalimento non esclude, infatti, il rispetto dei canoni di ragionevolezza e proporzione, e tuttavia può risultare idoneo a incidere, quantomeno, limite della garanzia della concorrenza.

Non può partecipare alla gara l’Impresa il cui oggetto sociale non ricomprenda l’attività appaltata

M.M.
Il Consiglio di Stato con la decisione n. 1357 del 9 marzo 2009 afferma il principio per il quale per partecipare ad una gara di appalto occorre che lo specifico oggetto della commessa sia ricompreso nell’oggetto sociale, quantomeno quando la lex specialis richieda di depositare agli atti di gara la visura camerale.
Nello specifico, la stazione appaltante aveva provveduto ad escludere una società da una gara per “l’affidamento del servizio di raccolta differenziata” essendo richiesto, fra gli oggetti del servizio, lo svolgimento di una “campagna informativa annuale”, non risultante dall’oggetto sociale dell’impresa esclusa.
Il giudice di prime cure aveva provveduto ad annullare l’atto di esclusione, rilevando che ogni operatore commerciale è in quanto tale idoneo, oltre a svolgere l’attività d’impresa, anche a promuovere commercialmente i propri prodotti e servizi.
Tuttavia, come ha rilevato il Giudice di secondo grado, rilevano in via autonoma le previsioni della lex specialis di gara, per la quale le Imprese erano onerate di produrre in gara di un certificato camerale, dal quale avrebbe dovuto risultare la loro idoneità allo svolgimento dei servizi oggetto dell’appalto. Da cui la conclusione che, in tali casi, tra oggetto della commessa (ovvero: ciascuno degli oggetti della commessa) e oggetto sociale risultante dal certificato camerale deve esservi precisa corrispondenza.
In altre parole, in presenza di una specifica richiesta del Capitolato, non può desumersi aliunde il possesso della capacità di svolgere il servizio, occorrendo precisa contemplazione da parte dell’oggetto d’impresa comunicato alla Camera di commercio.
In materia,  costituisce principio consolidato (es. T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, n. 670 del 8 febbraio 2008) quello per cui, per partecipare alle gare pubbliche di appalto, occorre che l’attività rientri nell’oggetto sociale (ed anzi, secondo l’interpretazione più rigorosa, deve trattarsi di attività, oltre che iscritta, anche concretamente esercitata, non essendo sufficiente il solo dato formale della corrispondenza con la visura camerale, cfr. T.A.R. Valle d'Aosta, sez. I, n. 12 del 13 febbraio 2008).
Da questo punto di vista, l’obbligo di corrispondenza sussiste, di fatto, anche a prescindere dal tenore della lex specialis, che tuttavia, usualmente, impone in maniera formale il requisito.
Se mai, è da dire che le maglie dell’interpretazione, sul punto, sono state sinora piuttosto larghe: in particolare, si è ritenuta non occorrente una corrispondenza rigorosa, bensì che l’oggetto sociale, nel suo complesso, fosse afferente il servizio messo in gara.
La decisione in commento si mostra invece estremamente restrittiva, con riferimento a un caso, tutt’altro che inusuale nella prassi, ove, accanto alla materiale prestazione del servizio, sia richiesta attività - connessa ma ulteriore – di informazione (solitamente estranea alle imprese che non operino in tale settore specifico).
In simili casi, pertanto, non resta che lo strumento dell’associazione temporanea.

Se la stazione appaltante sbaglia nell’apertura delle offerte, chi paga pegno è l’impresa, anche se l’errore non è ad essa imputabile

F.B.
Con la pronuncia n. 1134 del 25.2.2009, la Sezione V del Consiglio di Stato si pronuncia su un caso di anticipata apertura, per errore della stazione appaltante, dell’offerta di uno dei concorrenti.
Precisamente, nel caso era avvenuto che l’Ufficio protocollo, anziché limitarsi a prendere atto del pervenimento dell’offerta di un concorrente, avesse aperto il plico, per poi consegnarlo alla Commissione di gara, la quale, ancorché senza visionarne il contenuto, aveva proceduto oltre negli adempimenti di rito, provvedendo a prendere visione di tutte le offerte in unico contesto, e aggiudicando infine la commessa proprio alla concorrente la cui busta era stata aperta per sbaglio.
Ora, la procedura di gara, in casi del genere, è sicuramente viziata: comportano invero un tale esito, secondo giurisprudenza del tutto pacifica, non solo i vizi che abbiano concretamente inciso sulla procedura e sui suoi esiti, ma, anche, tutti quelli che si mostrino anche solo astrattamente idonei in tale direzione. L’apertura di una offerta in tempi diversi rispetto alle altre implica indubbiamente vizio della procedura incidente sulla sua legittimità, stante il rischio, anche solo ipotetico, di una calibrazione artefatta dei punteggi, in violazione delle regole di trasparenza e par condicio.
Se l’illegittimità della procedura, a fronte di simili evenienze, è quindi indiscutibile, si tratta di verificare le conseguenze ultime sulla gara: se, in particolare, la procedura debba essere integralmente ripetuta, ovvero se – come ritenuto dal Consiglio di Stato nella decisione in commento – debba invece essere escluso il concorrente che, pur senza colpa, abbia avuto la sventura di incorrere nell’errore della stazione appaltante: “né rileva in contrario la circostanza, del tutto pacifica, che l’apertura della busta non sia soggettivamente imputabile né al concorrente né alla commissione, ma solo a un errore dell’ufficio protocollo. E’ infatti sufficiente il mero fatto oggettivo dell’apertura di una domanda di partecipazione prima del momento in cui la commissione debba avere cognizione dei relativi contenuti, perché tale offerta vada definitivamente esclusa dalla gara”. In senso analogo militano, anche, taluni precedenti dello stesso Consiglio di Stato.
In verità, la diversa opzione per l’illegittimità toutcourt della procedura sarebbe maggiormente conforme al principio, connesso ai canoni di imparzialità dell’azione amministrativa, per cui l’esclusione di un’impresa ha natura sostanzialmente sanzionatoria, e da questo punto di vista appare inusuale che le conseguenze di un difetto della stazione appaltante possano gravare sulla concorrente incolpevole.
Tra l’altro, tali conclusioni potrebbero prestarsi anche a possibili abusi, essendo in astratto possibile che l’apertura anticipata di una richiesta di partecipazione avvenga a titolo doloso, proprio al fine di pretermettere una singola concorrente dalla procedura.
L’opposta soluzione dell’esclusione limitata al concorrente (anche incolpevole), d’altro canto, può essere giustificata ricorrendo al principio di c.d. conservazione degli atti amministrativi, in forza del quale devono farsi salve, nei limiti del possibile, le attività compiute.
Resta da vedere, peraltro, se l’interpretazione qui in commento escluda anche una strada spesso praticata nel caso di errori, imputabili alla stazione appaltante, di tal genere, ovvero quella dell’autotutela amministrativa. Il fatto che la giurisprudenza indichi come corretta l’esclusione limitata al concorrente, in proposito, non sembra escludere in radice che l’Ente possa, anche, decidere di annullare tutta la procedura, dandone adeguata motivazione, quantomeno quando non siano stati assegnati ancora i punteggi qualitativi ai vari concorrenti (mentre, superata tale fase, un’autotutela tardiva si presterebbe alle medesime valutazioni, in punto di possibili abusi, dietro esposti).
In ogni caso, per la concorrente esclusa restano salve le aspirazioni risarcitorie, tanto più in considerazione dello stato dell’arte in materia di c.d. pregiudiziale amministrativa. In tale caso, infatti, l’impresa esclusa per fatto dell’ente potrà richiedere alla stazione appaltante il risarcimento del danno per equivalente monetario, per perdita di chance di aggiudicazione.

Collegamento sostanziale nelle gare a lotti plurimi

F.B.
Mentre la Corte di giustizia delle Comunità europee esamina la legittimità della normativa nazionale in tema di collegamento sostanziale (ritenuta non conforme dall’Avvocato generale), il Consiglio di Stato allarga le maglie del divieto, fino a ricomprendervi le partecipazioni avvenute in lotti distinti (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 848/09, del 16.2.2009).
Come noto, l’art. 34 d.lgs. n. 163/2006 stabilisce l’obbligo di esclusione delle offerte provenienti da un “unico centro decisionale”.
La fattispecie, già elaborata dalla giurisprudenza – anche sulla scorta del d.p.r. n. 554/99 – prima del nuovo Codice, è stata consacrata nel d.lgs. n. 163/2006, il quale, tuttavia, ne ha opportunamente ridelineato i confini, prevedendo l’esclusione dei concorrenti per i quali le stazioni appaltanti “accertano che le relative offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale, sulla base di univoci elementi”.
Ancorché le interpretazioni sul punto non siano esattamente univoche (in più di un vaso la disposizione, pur se eccezionale in quanto recante eccezione al principio di libera partecipazione, è stata letta in maniera a dir poco estensiva), il teso dell’art. 34 richiede oggi non solo un “sospetto” circa la provenienza da un “unico centro”, bensì un vero e proprio accertamento di tale evenienza, fondato su una pluralità di elementi chiari, precisi e concordanti.
Di regola, si tratta di casi in cui le offerte mostrano, per il loro contenuto, di provenire da un solo soggetto sostanziale (si pensi alle offerte con medesimi errori formali, alle offerte progettuali di medesimo contenuto sostanziale, ai casi di spedizione dal medesimo fax, o con fideiussioni progressive, etc.). Oppure, in altri casi, di offerte provenienti da soggetti riconducibili ad unitarietà in ragione di elementi di comunanza estrinseci (intrecci societari e parentali, comunanza di cariche, etc.), quando, tuttavia, il dato formale sia comunque comprovato dal tenore sostanziale delle offerte, dalle quali possa desumersi, con ragionevole certezza,  la provenienza da una medesima fonte.
La decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 848/09, del 16.2.2009, si è occupata di un caso davvero peculiare, relativo ad offerte (pacificamente provenienti da unica fonte, sussistendo sia rapporti formali tra i soci e gli amministratori dei concorrenti, sia soprattutto legami sostanziali quali l’identità dei fax e l’identità testuale delle offerte) presentate tuttavia in lotti diversi della medesima gara.
La conclusione del Consiglio di Stato è che anche in tal caso sussiste l’obbligo di esclusione, trattandosi di “gara inaugurata da un unico bando, e caratterizzata dalla possibilità per ogni impresa di partecipare a tutti i lotti”. Nonché, in considerazione del “reciproco condizionamento dei lotti, sub specie di aggiudicazione del solo lotto di importo più elevato in caso di presentazione di offerte per più di un lotto”, dato idoneo a dimostrare che “si tratta di una gara sostanzialmente unica”.
Tali conclusioni appaiono, ad opinione di chi scrive, opinabili.
La ratio del divieto di partecipazione in regime di collegamento sostanziale è quella di evitare che offerte provenienti da un unico centro, e quindi concordate (o potenzialmente tali), possano incidere sulla genuinità della concorrenza e della procedura. Non a caso, la fattispecie è strettamente connessa al delitto di turbativa di asta, reato di pericolo, che si concreta non solo quando la gara sia stata effettivamente incisa negli esiti, ma anche quando si sia determinato un pericolo, anche solo astratto, verso la regolarità della procedura.
Concretamente, un simile rischio può configurarsi in particolare nelle gare con esclusione automatica e con c.d. “taglio delle ali”, senza possibilità di verifica caso per caso dell’anomalia: in tal caso, più offerte concordate (talune tese a spostare la media, e talaltre poste in “zona di aggiudicazione”) potrebbero incidere sui ribassi, sulle medie, e sulla soglia di anomalia.
Al di fuori di tali casi – pur se la legge effettivamente non distingue – non risulta probabile quel rischio di inquinamento della procedura che la norma mira ad evitare, in quanto la sub procedura di verifica dell’anomalia consente l’aggiudicazione, previa verifica dell’anomalia ove occorrente, anche all’offerta di maggior ribasso (per formulare la quale non vi è necessità di accordarsi con chicchessia).
Tuttavia, anche al di fuori di tali ipotesi, deve pur sempre trattarsi di un rischio per la singola procedura, che pare davvero difficile ravvisare nelle gare a lotti plurimi, ove le imprese in collegamento non partecipano agli stessi lotti.
Ciascun lotto, infatti, ancorché facente parte di una procedura unitaria, vive di vita propria: anche qualora due offerte fossero tra loro coordinate, ma formulate su lotti distinti (ma allora non si comprende l’utilità dell’accordo), la graduatoria di ciascun lotto non risente delle sorti dell’altro. Pertanto, in tali fattispecie, non sembra plausibile possa trovare applicazione il divieto di partecipazione di cui all’art. 34, che, si ritiene, fa riferimento alla nozione di “gara” in senso sostanziale, e quindi, nelle procedure a lotti plurimi, al singolo lotto.
Nel caso di specie, la lex specialis stabiliva un legame tra i diversi lotti, prevedendo che, quando un’impresa fosse risultata prima in graduatoria in più lotti, si sarebbe aggiudicata un solo lotto (quello di importo maggiore), con esclusione della possibilità di divenire aggiudicataria anche dei rimanenti.
Anche di fronte a una situazione del genere, tuttavia, resta difficile comprendere ove risiederebbe il rischio di un inquinamento della procedura, quando le due imprese contestate come collegate abbiano partecipato, ciascuna, ad un solo lotto.
Tra l’altro, simile interpretazione, tutt’altro che imposta dalla lettera della legge e dalla ratio della medesima, esclude toutcourt ogni chance di partecipazione delle imprese in condizione, ad esempio, di controllo societario.
Mentre sinora si riteneva che controllante e controllata non potessero partecipare alla stessa gara, ma dovessero necessariamente, nelle gare a lotti plurimi, scegliere in quale lotto partecipare, senza possibilità di interferenza, secondo il Consiglio di Stato è invece da escludere anche questa possibilità, con grave vulnus sia per le imprese (ove i rapporti reciproci, di per sé legittimi, sono oramai necessari, usuali, e all’ordine del giorno), sia per il principio di massima partecipazione, funzionale all’interesse, pubblico, al reperimento della migliore offerta tramite l’interpello del maggior numero possibile di concorrenti.
Tutto ciò mentre, come accennato, la Corte di giustizia europea è in procinto di decidere sulla legittimità della normativa nazionale in proposito (su remissione del T.A.R. Lombardia, che, pure, della norma ha tradizionalmente fatto una applicazione tutt’altro che restrittiva) in causa ove, pochi giorni fa, l’Avvocato generale ha concluso per l’incompatibilità della norma verso il diritto comunitario, in quanto non consente, nel caso di offerte provenienti da imprese in condizioni di controllo societario, di dimostrare che, in concreto, non vi è stato reciproco condizionamento.

Il giudice amministrativo può sindacare in via incidentale l’irregolarità del D.U.R.C.: un revirement del Consiglio di Stato

M.M.
Il Presidente del T.A.R. Toscana, all’atto dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha evidenziato come una rilevante parte del contenzioso in materia di appalti abbia avuto per oggetto le questioni connesse alla regolarità contributiva delle imprese, e analogamente è accaduto in tutti i Tribunali amministrativi, con speciale riferimento al Documento unico di regolarità contributiva (D.U.R.C.).
Si rammenta che il c.d. D.U.R.C. è stato previsto, in via generale, dal d.lgs. n. 276/2003, di modifica del d.lgs. n. 494/96 in materia di sicurezza nei cantieri, ma, per gli appalti pubblici, esso era già prescritto dall’art. 2 d.l. n. 210/02.
L’art. 38 d.lgs.n. n. 163/2006, al co. 1 – similmente da quanto previsto dall’art. 75 d.p.r. n. 554/1999 – stabilisce l’esclusione per coloro che “hanno commesso gravi infrazioni debitamente accertate alle norme in materia di sicurezza e a ogni altro obbligo derivante dai rapporti di lavoro, risultanti dai dati in possesso dell'Osservatorio”, o che “hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali”.
Il co. 2 dell’art. 38 stabilisce inoltre che “resta fermo, per l'affidatario, l'obbligo di presentare la certificazione di regolarità contributiva di cui all'articolo 2, del decreto-legge 25 settembre 2002, n. 210, convertito dalla legge 22 novembre 2002, n. 266 e di cui all'articolo 3, comma 8, del decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494 (oggi d.lgs. n. 81/08) e successive modificazioni e integrazioni”.
Infine, il decreto ministeriale del 24 ottobre 2007 ha precisato la nozione di “regolarità contributiva”, chiarendo tra l’altro che essa sussiste anche in caso di richieste di rateizzazione (approvata) o di istanze di compensazione, prevedendo anche una “soglia di tolleranza” per somme a non superiori ad € 100,00, e regolando l’incidenza dei contenziosi in materia di contributi.
La giurisprudenza è stata, quindi, più volte interpellata in merito alla questione – rilevante a fronte del complesso quadro normativo citato – se ai fini della partecipazione alle gare di appalto occorra necessariamente un D.U.R.C. in regola; a quale data eventualmente il requisito debba sussistere; e se il Giudice amministrativo abbia o meno la possibilità di valutare autonomamente la regolarità contributiva.
In argomento si registrano due orientamenti.
Secondo il primo (cfr. T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, I, n. 3740 del 19 giugno 2008), l’irregolarità contributiva rileva ai fini dell’ammissione alle gare solo quando, secondo valutazione rimessa alla stazione appaltante, integri una “violazion[e] grav[e] debitamente accertat[a]”. In senso analogo, il parere n. 102/2008, dell’A.V.CC.PP., per la quale “la semplice menzione nel DURC dell’assenza di regolarità contributiva non può condurre di per sé all’esclusione”.
Secondo altra (sostanzialmente maggioritaria) giurisprudenza, invece, un conto sono le “violazioni gravi accertate” (che escludono la partecipazione anche se pregresse, e nonostante la presenza di un D.U.R.C. regolare), altro conto è il D.U.R.C., che costituisce autonoma causa di esclusione, a prescindere da causa ed entità dell’irregolarità.
Tale filone giurisprudenziale rinviene la causa di esclusione (e di impedimento alla stipula del contratto) non nel co. 1 dell’art. 38, bensì del combinato disposto del co. 2 dell’art. 38 e dell’art. 2 d.l. n. 210/02. Occorre quindi, al fine di partecipare alle gare, un D.U.R.C. attestante la regolarità contributiva, e ciò sia all’epoca della presentazione dell’offerta, sia all’epoca dell’aggiudicazione, sia della stipula del contratto (cfr. T.A.R. Toscana, Sez. I, n. 182/2009 del 2 febbraio 2009, e Consiglio di Stato, sez. V, n. 5575 del 23 ottobre 2007).
A fronte di un Documento irregolare, insomma, alla stazione appaltante – secondo questa lettura – non residua alcuna discrezione, non potendo fare altro che provvedere all’esclusione dell’impresa (ed essendo irrilevante l’eventuale regolarizzazione successiva”).
Nel caso in commento, il Consiglio di Stato sembra invece cambiare registro (Consiglio di Stato, V sez., 13 febbraio 2009, n. 817).
Un’impresa, nel I grado, aveva impugnato gli atti di gara in quanto l’amministrazione aveva aggiudicato l’appalto ad altro concorrente, titolare di un D.U.R.C. inizialmente negativo, e poi, tramite autotutela dell’I.N.P.S., divenuto positivo. La ricorrente sosteneva che permanesse tuttavia una condizione di irregolarità contributiva, con conseguente illegittimità del D.U.R.C. attestante la regolarità, e vizio, quindi, dell’aggiudicazione.
Il giudice di prime cure ha denegato la propria giurisdizione, ritenendo che in materia di DURC vengano in rilievo posizioni non conoscibili dal giudice amministrativo, pur essendovi stato esercizio di poteri di autotutela da parte dell’Autorità preposta al rilascio del documento.
Diversamente opinando, il Consiglio di Stato ha annullato tale sentenza, rilevando che in materia di pubblici appalti il giudice amministrativo è investito di giurisdizione esclusiva, e quindi ha titolo a compiere “a prescindere dalla consistenza della corrispondente posizione soggettiva, ogni accertamento che gli sia domandato dalla parte per verificare il rispetto dei principi comunitari in materia di concorrenza (tra i quali la regolarità contributiva delle imprese partecipanti)”.
Ciò tantopiù – ma il principio affermato ha portata generale – in presenza di un atto di autotutela.
Quindi, il Giudice amministrativo ha titolo a verificare, in maniera autonoma, la regolarità contributiva: “il giudice amministrativo … ben può incidentalmente valutare la sussistenza dei requisiti di partecipazione, siano essi o meno attestati da atti della p.a.”, qualora a ciò sia chiamato dall’atto di ricorso.
Tale principio è affermato in fattispecie indubbiamente peculiare: a fronte di un’istanza, da parte di altro concorrente, tesa ad accertare l’irregolarità contributiva a fronte di un D.U.R.C., invece, positivo.
Tuttavia, esso dovrebbe valere, sussistendo eadem ratio, anche nel caso opposto: quando cioè l’impresa esclusa a causa di un D.U.R.C. negativo censuri la propria esclusione, allegando la regolarità sostanziale verso le previdenze, che le citate sentenze sinora escludevano.
Vacilla fortemente, quindi, il principio del rigido riparto di competenze in tema di D.U.R.C., con la remissione al Giudice amministrativo di un potere di verifica  che la giurisprudenza, sinora, denegava.

Risarcimento del danno da illegittima esclusione solo se l’amministrazione versa in condizione di colpa

F.B.
La Sesta sezione del Consiglio di Stato, con la decisione n. 1732 del 23 marzo 2009 si sofferma sul requisito dell’elemento soggettivo ai fini del risarcimento del danno da esclusione illegittima, già oggetto di precedenti pronunzie, ma qui trattato con ampia meditazione.
Nel caso sottoposto, un’Amministrazione aveva appellato la decisione di primo grado che l’aveva condannata al risarcimento per equivalente monetario in favore di un’Impresa che, anni addietro, era stata esclusa – illegittimamente, come appurato in altro giudizio – dalla procedura di gara.
La sentenza di primo grado aveva condannato l’appellante alla corresponsione del risarcimento del danno, da cui l’appello dell’Ente, teso a contestare i presupposti della decisione.
La Sesta Sezione premette anzitutto che costituisce onere del privato che domandi il risarcimento del danno, principalmente, la prova della illegittimità dell’esclusione dalla gara, nonché l’avvenuta partecipazione alla stessa. Più liberale, invece, l’apprezzamento della prova del quantum, in quanto, se le spese di partecipazione alla procedura devono, come ritenuto correntemente, essere specificamente dimostrate (e, da questo punto di vista, la dimostrazione è spesso diabolica), per il resto possono soccorrere criteri presuntivi.
E’ noto in particolare che, tradizionalmente, la perdita di chance è forfetariamente quantificata nella misura del 10% (es. Consiglio Stato, sez. V, n. 3806 del 30 luglio 2008), passibile peraltro di riduzione proporzionale a seconda del numero dei concorrenti, della graduatoria, e financo del contenuto dell’offerta (Consiglio Stato, sez. V, n. 491 del 28 gennaio 2009). La giurisprudenza, ancorchè tutt’altro che univoca sul punto, ha in proposito stabilito taluni criteri allo scopo.
Deve solo aggiungersi, se mai, che recente giurisprudenza (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, n. 2751 del 9 giugno 2008) ha, anche, riconosciuto il danno ulteriore connesso alla perdita di immagine e all’impossibilità di partecipare ad altre gare (impossibilità di spendere i requisiti che si sarebbero maturati con l’aggiudicazione in quella procedura), denominato “danno curriculare”.
Ciò ancorchè altra giurisprudenza (T.A.R.  Friuli Venezia Giulia, I, n. 639 del 17 novembre 2008) sia pervenuta a soluzione alternativa originale, per la quale da una parte non spetta il risarcimento del danno al curriculum, ma dall’altra l’Impresa illegittimamente esclusa può spendere, quale requisito di partecipazione, il contratto cui (virtualmente) avrebbe avuto titolo qualora non fosse stata esclusa.
Più problematico, sin dalla nota sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 500 del 1999, il requisito della “colpa” in capo all’amministrazione.
Secondo l’interpretazione corrente, non si tratta, nel caso, di una responsabilità di tipo oggettivo, bensì, ai sensi dell’art. 2043, di responsabilità colpevole. Con l’esigenza di interpretare la misura dell’elemento soggettivo.
Da questo punto di vista, la giurisprudenza è univoca nel ritenere che l’illegittimità dell’esclusione costituisca indice presuntivo della colpa: si tratta, tuttavia, di presunzione semplice, dovendosi escludere la responsabilità dell’amministrazione quando l’errore sia incolpevole.
Si discute, tuttavia, sul soggetto titolare del relativo onere probatorio.
Secondo un primo orientamento, la prova dell’inescusabilità dell’errore grava su chi domanda il risarcimento (es., T.A.R. Puglia, Bari,  sez. I, n. 2249 del 29 settembre 2008: “l'accoglimento della domanda postula che … il ricorrente abbia dimostrato, … oltre addurre l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa, … che si sia trattato di errore inescusabile”).
Secondo altro orientamento, cui aderisce la sentenza qui in commento, al contrario, per il ricorrente è sufficiente la dimostrazione dell’illegittimità dell’esclusione, che fonda, presuntivamente, la responsabilità colpevole che è requisito per la condanna alla rifusione dei danni; mentre, l’Amministrazione può – ed è suo onere – dimostrare che si è trattato di errore incolpevole: “spetterà di contro all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali, … di formulazione incerta di una norma da poco entrata in vigore, di rilevante complessità del fatto …”.
Spetta all’Amministrazione, in buona sostanza, la prova dell’assenza di qualsivoglia profilo di (dolo o), e quindi l’onere di dimostrare l’assenza di quell’ elemento soggettivo rilevante ai fini della configurazione di una condotta colpevole.
Nel caso di specie, il Consiglio di Stato, giustappunto, ritiene insussistente l’elemento soggettivo, anche sotto il profilo della colpa, in quanto l’esclusione della Società appellata era conseguita, a suo tempo, in conseguenza dell’applicazione di un orientamento giurisprudenziale all’epoca consolidato, oggetto di un revirement solo successivo all’avvenuta esclusione.
Del resto, come fa conclusivamente notare la Sesta Sezione, qualora la stazione appaltante non avesse escluso l’Impresa appellata, e quindi non si fosse conformata all’orientamento giurisprudenziale all’epoca dominante, con ogni probabilità la mancata esclusione sarebbe stata ugualmente oggetto di impugnativa da parte delle Imprese controinteressate, con tutte le analoghe conseguenze che ne sarebbero seguite.
Tale lettura, fondata sul raffronto con la giurisprudenza prevalente, mette certamente a riparo le amministrazioni (cui spetta, sostanzialmente, l’onere di aggiornarsi con compiutezza rispetto allo stato della giurisprudenza). D’altro canto, se mai, così facendo si rischia di appiattire l’operato delle stazioni appaltanti in punto di interpretazione, poiché una lettura autonoma diversa da quella dei Giudici amministrativi (spesso in contrasto tra di loro), le espone a rischi risarcitori, con possibili risvolti anche contabili; ma d’altronde, non può negarsi che l’interpretazione della legge spetta, in primo luogo, alla magistratura.
Da ultimo, in argomento, si segnala come isolata, ma estremamente “rischiosa” per gli enti, la diversa tesi, per vero minoritaria, per cui in materia di interpretazione della normativa non è mai configurabile l’errore scusabile (cfr. Cons. giust. amm. Sicilia, n. 224 del 21 marzo 2007, per la quale “la limitazione di responsabilità al solo caso di dolo o colpa grave di cui all'art. 2236 c.c. … presuppone una prestazione che implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà e non può riferirsi all'attività di mera interpretazione di norme giuridiche, quale è quella che può dare luogo all'erronea individuazione dell'aggiudicatario in una gara di appalto; infatti, l'Amministrazione interpreta a propria discrezione, ma per questo altresì a proprio rischio, le norme giuridiche via via introdotte nell'ordinamento (c.d. interpretazione amministrativa), …; cioè senza alcuna certezza dell'esattezza di tale propria esegesi, e … senza poter vantare alcuna speciale irresponsabilità per le conseguenze economicamente pregiudizievoli dell'esegesi eventualmente erronea della nuova norma (in altri termini, essa non può translare sui terzi il danno ingiusto cagionato da un proprio eventuale errore esegetico)”.

La valutazione del fatturato pregresso in appalti analoghi deve essere rigorosa (con il problema dell’avvalimento)

F.B.

Fra i requisiti economico finanziari per la partecipazione a una gara di appalto può esservi quello del fatturato reso nel triennio per “servizi analoghi”, e sull’analogia tra servizi precedenti e oggetto di gara la valutazione dell’Ente deve essere approfondita.
Nel caso di specie (Consiglio di Stato, V, n. 1589 del 16 marzo 2009), relativo a gara per la realizzazione di impianti di trattamento rifiuti, il fatturato era stato dimostrato con riferimento, anche, ad attività di gestione di rifiuti: servii, e non lavori, con conseguente inammissibilità della spendita del requisito.
Pertanto, ancorché il riferimento sia alla medesima materia (nella vicenda, pur sempre riferita ai rifiuti), occorre distinguere – chiarisce il Consiglio di Stato – tra lavori e servizi, non potendosi riscontrare, nel caso di divergenza tra i due tipi, la prescritta analogia.
Accanto a questo “peccato originale”, ancorché incidenter tantum, la decisione in commento si sofferma anche su ulteriori ragioni di inammissibilità della documentazione circa il fatturato pregresso, alcune delle quali di una certa significatività.
Tra di esse, oltre l’inconferenza temporale e la mancanza di certificazione probatoria, va segnalato il caso di servizi svolti in ATI: nel qual caso, evidenzia opportunamente la  pronunzia, è inammissibile la spendita del requisito ove non sia indicata la partecipazione all’associazione temporanea; con ciò chiarendo, tra l’altro, che il fatturato spendibile non è quello dell’intero raggruppamento, bensì la quota proporzionale alla partecipazione. Conclusione corretta, ma non sempre scontata in giurisprudenza.
La decisione si mostra di interesse anche con riferimento all’avvalimento di cui all’art. 48 d.lgs. n. 163/06.
Chiarito che l’avvalimento può essere utilizzato anche per i requisiti economico-finanziari (e d’altronde lo prevede espressamente la legge), secondo il Consiglio di Stato è legittima l’elencazione di più imprese ausiliarie, quando l’indicazione avvenga in via non cumulativa, bensì alternativa: o meglio, (allorché l’alternatività non sia esplicita) quando, nel caso di più ausiliarie, sia sufficiente una di esse a conseguire il possesso del requisito.
Da ultimo, la Sezione ritiene infine legittima la circostanza che il Consorzio documenti i lavori svolti da una consorziata per altra consorziata o addirittura per un’impresa ausiliaria. Il Consiglio di Stato esclude trattarsi di una “partita di giro”, da cui la legittimità sia rispetto al testo della legge, sia vista la sua ratio.
Via libera, quindi, a una lettura tutt’altro che restrittiva in materia di avvalimento, consorzi, e fatturato; con attenzione tuttavia alla tipologia delle attività da cui il fatturato deriva, che non devono essere necessariamente identiche, ma pur sempre similari, quantomeno per macrotipologia di appalto.

Project financing: la proposta dichiara di pubblico interesse non è accessibile fino alla conclusione della gara

F.B.
Il Consiglio di Stato si pronuncia – nell’ambito di un ricorso verso diniego di accesso – sulle procedure di finanza di progetto, con riferimento ai rapporti tra la fase di apprezzamento della proposta, culminante con la dichiarazione di pubblico interesse, e quella successiva di svolgimento della gara.
Da premettere, quanto alla legge applicabile, che la fattispecie è maturata nel regime antecedente il Terzo decreto correttivo del Codice dei contratti: ciò nondimeno, la pronuncia si mostra di interesse anche alla luce della novella del 2008, trattandosi di motivazione che analizza compiutamente l’istituto e le sue peculiarità.
A fronte della conclusione della prima fase (tramite la c.d. “dichiarazione di pubblico interesse”), e bandita la gara sul progetto presentato dal promotore, uno dei concorrenti aveva domandato l’accesso agli atti della predetta “prima fase”, ricevendo il diniego dell’ente concedente.
Il T.A.R. del Lazio aveva annullato tale diniego, ritenendo l’accessibilità degli atti, sul presupposto che, nelle procedure di project, le fasi che la caratterizzano (dichiarazione di pubblico interesse; scelta del concedente tramite gara, sia essa con o senza prelazione) sono distinte. Conclusa la “prima fase” – secondo il giudice di I grado – i relativi atti sono pertanto visionabili, senza possibilità di differimento. Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in commento, ribalta tali conclusioni.
Opportunamente, nella decisione in parola, il Consiglio di Stato evidenzia, come, in concreto, la possibilità di visionare in particolare il Piano economico finanziariocomporterebbe significativa lesione della regolarità della procedura di gara per la scelta dell’aggiudicatario, con violazione del principio di par condicio. Sul piano teorico – ed è questo il punto di vista maggiormente di rilievo – il Consiglio di Stato, ripercorsa la normativa in materia, delinea la procedura di finanza di progetto come un procedimento unitario (più precisamente composto di due fasi “non solo funzionalmente collegate …, ma bi univocamente interdipendenti, così che la prima non è giuridicamente concepibile senza la seconda, e viceversa”. Di conseguenza, trattandosi di un “procedimento contraddistinto da una indiscutibile unitarietà logico-giuridica”, l’accesso agli atti della “prima fase” deve essere differito, da parte dell’Amministrazione, finchè non sia intervenuta l’aggiudicazione della concessione. La unificazione concettuale delle fasi in cui si suddivide la finanza di progetto, mai sino ad ora affermata con tanta chiarezza,  può peraltro importare conseguenze anche oltre la materia dell’accesso.
In particolare, affermata l’organicità della procedura, ciò potrebbe comportare, se non vi è autonomia tra le fasi, anche conseguenze ulteriori, in particolare circa il dies a quo per l’impugnativa degli atti: in altri termini, potrebbe aprirsi la strada, con più di una difficoltà all’atto pratico stante la lunghezza delle procedure di tale genere, per un’impugnativa della procedura, all’esito della gara, anche per vizi propri della “prima fase”.
Ad opinione di chi scrive – e ferma l’esigenza di una disamina caso per caso – tuttavia, l’affermare che le due tranches del procedimento non sono tra di loro autonome non può importare la conseguenza di disconoscere che, tramite la dichiarazione di pubblico interesse, si conclude una subprocedura che, ancorchè non viva di vita propria, cristallizza la scelta della proposta, con la conseguenza che, secondo i comuni princìpi, non è possibile differirne, a differenza che l’accesso, l’impugnazione, quando ne derivi una immediata lesione delle posizioni giuridiche.

È illegittima la lex specialis che implichi una restrizione della concorrenza, e che sia equivoca circa la natura dell’appalto

F.B.

È rigida la lettura del Consiglio di Stato in tema di tutela della concorrenza e di onere di chiarezza in capo alla stazione appaltante sulla natura del servizio appaltato.
Con la decisione n. 700 del 6.2.2009 il Consiglio di Stato si pronuncia anzitutto in merito al divieto di cui all’art. 68 co. 13 d.lgs. n. 163/2006, per il quale “le specifiche tecniche non possono menzionare una fabbricazione o provenienza determinata o un procedimento particolare né far riferimento a un marchio, a un brevetto o a un tipo, a un'origine o a una produzione specifica che avrebbero come effetto di favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti”.
Norma applicabile, secondo la pronuncia in questione, non solo al caso, tipico, in cui l’ente che bandisce la fornitura domandi una determinata tipologia di prodotto, ma, anche, quando, per un determinato macchinario, pretenda la fornitura di “ricambi originali”.
Nel caso di specie, la stazione appaltante aveva domandato, per la commessa di manutenzione di veicoli Iveco, la fornitura di ricambi originali della casa costruttrice, oppure di prodotti equivalenti, ma solo se “certificati” da apposito organismo, tuttavia allo stato inesistente; e così, di fatto, escludendo la legittimità dell’offerta di prodotti non realizzati dalla casa automobilistica costruttrice.
Corrispondentemente ai recenti interventi di matrice comunitaria, tesi ad escludere la “privativa” sui ricambi di automezzi, anche ai fini della operatività della garanzia, un simile modus operandi si appalesa pertanto illegittimo.
Altrettanto rilevante il prosieguo della pronuncia, nella parte in cui censura la lex specialis in quanto, inoltre, essa domandava ai concorrenti non solo la fornitura dei ricambi, ma anche la manutenzione del parco veicoli dell’ente.
Se nulla esclude che venga bandito un appalto di natura mista, conclude il Consiglio di Stato, anche è vero che l’indicazione nominativa (che viene diffusa tramite la pubblicazione del bando nei modi di legge) deve essere precisa: costituisce ragione di illegittimità, pertanto, la definizione di una gara di appalto come relativa alla fornitura, quando, in realtà, il disciplinare contempli poi, ancorché in via solo eventuale, anche la manutenzione, che va ricondotta all’appalto di servizi, ciò determinando una “obiettiva incertezza nell’oggetto del contratto e alimentando, di conseguenza, la contrazione della partecipazione alla gara”.